Il fallimento delle prigioni: 7 su 10 ritornano in carcere

Attualità

Milano 19 Settembre – Carcere Due Palazzi di Padova. Sulla parete bianca del piccolo spazio dove un gruppo di detenuti prende aria durante una pausa lavoro, una scritta in portoghese dice: «Dall’amore non si fugge». Forse è vero. E dal crimine, invece? Quasi mai segnalano le incomplete statistiche del ministero della Giustizia e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dalle quali si deduce che sette persone su dieci rilasciate dalla prigione prima o dopo ci rientrano.

Scontano le pena, delinquono e vengono arrestate di nuovo, in una giostra senza fine che riguarda a rotazione circa duecentomila uomini e donne in Italia, 54mila dei quali sono oggi dietro le sbarre. «La situazione è disastrosa. E fa impressione vedere che non esistono numeri ufficiali sulla recidiva. Significa che il Sistema ignora uno dei dati fondamentali legati alla funzione della pena», dice Alessandro Scandurra dell’Associazione Antigone, scattando la fotografia di un ennesimo fallimento italiano.

Un fallimento che costa alla collettività tra i tre e i quattro miliardi l’anno.

Il lavoro negato

Eppure l’articolo 27 della Costituzione recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». E l’articolo 1 dell’ordinamento penitenziario ribadisce il concetto: «nei confronti dei condannati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda (…) al reinserimento sociale degli stessi». L’articolo 13, va persino oltre, tentando il triplo carpiato rovesciato della civiltà giuridica: «nei confronti dei condannati deve essere predisposta l’osservazione scientifica della personalità (…) su cui intervenire con un programma individualizzato di trattamento rieducativo». L’idea di fondo è che se il recupero e il reinserimento falliscono il danno per la collettività è enorme in termine di costi e di sicurezza. Bene. Favoloso. Uno schema studiato in ogni angolo del pianeta e totalmente disatteso da noi. La legge c’è, ma se non ci fosse sarebbe uguale. E’ un problema irrisolvibile o a un problema che non si vuole risolvere? L’esperienza dice che il rimedio alla recidiva esiste. E quel rimedio si chiama lavoro, attività dalla quale – anche qui in totale inadempienza legislativa – il 70% della popolazione carceraria resta esclusa. Curiosamente la stessa cifra della recidiva.

Per altro servirebbe non un lavoro qualunque, ripetitivo e saltuario come quello che riguarda poco meno del 29% dei detenuti – scopini, cucinieri o lavandai, retribuiti con quello che loro stessi hanno ribattezzato «sussidio diseducativo» – ma un lavoro che prepara al ritorno all vita esterna come quello che viene appaltato a un ristretto gruppo di aziende in giro per l’Italia, a cominciare dalla cooperativa «Giotto» di Padova, che nei suoi 26 anni di attività all’interno del Due Palazzi ha formato e reinserito centinaia di carcerati. «Il tasso di recidiva di chi lavora con noi? È compreso tra il 2 e il 3%», dice Nicola Boscoletto, presidente della coop veneta. Il 2-3 contro il 70. «E i nostri calcoli dicono che ogni punto di recidiva abbattuto farebbe risparmiare allo Stato 40 milioni l’anno».

Dall’omicidio alla vita

Il Due Palazzi è una casa di reclusione, vale a dire che i suoi 604 ospiti hanno tutti subìto una condanna definitiva. Ci sono detenuti comuni, detenuti ad alta sicurezza e detenuti protetti, cioè gli uomini apparentemente più pericolosi di questo Paese e nella fiera campionaria della criminalità non manca nulla: assassini, rapinatori, pedofili, mafiosi. La Giotto dà lavoro a circa 140 di loro, in un ampio spazio al piano terra dove ci sono un laboratorio per assemblare le valigie, una pasticceria che rifornisce duecento esercizi commerciali in tutta Italia e un call center che impiega cento persone occupandosi anche di gestione di procedimenti amministrativi, di prenotazioni per gli ospedali, di digitalizzazione di documenti o di pen drive per la firma digitale. Roba piuttosto complessa. La sala del call center è rettangolare, lunga, pulita, piena di computer e su una parete c’è la riproduzione dei dipinti di Giotto alla Cappella degli Scrovegni. Il bene e il male che corrono in direzione opposta uno accanto all’altro.

Quando Jacopo, che oggi ha 27 anni, è arrivato al Due Palazzi, era già stato nei penitenziari psichiatrici di Castiglione delle Stiviere, Aversa e Reggio Emilia. Rinchiuso nel 2009 dopo avere ammazzato un amico con crudeltà e per futili motivi. «Non mi ricordo neppure più quali fossero», dice ora con uno sguardo chiaro, apparentemente pacificato. La sua vita era piena di smorfie fasulle e di sorrisi cattivi. Nei giorni del processo la diagnosi per lui, aggressivo fin da bambino e incapace di stare con gli altri, fu: schizofrenia paranoide. Oggi per i medici non è più pericoloso. «Ma negli ospedali psichiatrici l’unico trattamento che c’era per me era farmacologico. Io chiedevo di lavorare, magari in biblioteca, e la risposta era sempre: no, fai paura. Morale: cercavo di scappare». A Padova gli è successo il contrario. La psicologa della Giotto lo è andato a cercare. Vuoi lavorare per noi ? Jacopo l’ ha guardata strano. «Lo sai chi sono? Mi sono chiesto se il matto fosse lei». Non era matta. Gli ha aperto le porte del call center. «Stavo seduto un’ora e mi scoppiava la testa. Adesso è la mia vita. Quando mia mamma ha saputo del lavoro non è riuscita a trattenere le lacrime dalla felicità». Il lavoro per la Giotto cambia quello che ha fatto? No. Ma ha cambiato lui. «Un tempo ero convinto che tutto il mondo ce l’avesse con me. Che il problema ce l’avessero gli altri, non io. Oggi penso positivo, è la prima volta in vita mia. E quando mi siedo al computer non mi scoppia più la testa». La sua pena finirà nel 2030. E quando uscirà saprà cosa fare. «Al call center mi chiedono consigli anche uomini della Polizia, è bello».

Apre la porta a vetri della saletta di fronte alla sua postazione e si siede a un tavolo rettangolare. Di fianco a lui ci sono Roberto, tre omicidi, fine pena 2033 (è entrato nel 2003), Mustafa, 31 anni, che in carcere è già tornato quattro volte per rapina aggravata e reati di droga e uscirà nel 2021, e tre ergastolani. Giovanni, albanese, condannato per omicidio, Guglielmo e Angelo, condannati a loro volta per omicidi commessi per conto delle cosche mafiose alle quali erano affiliati. Sono uomini magnetici e tormentati, non privi di segreti, ma con una convinzione comune. «Il lavoro ti cambia la vita». Guglielmo, fine pena mai, viene da Gela e di galere ne ha girate parecchie. Ha 44 anni. È dentro da 22. «Negli altri penitenziari la mia vita era solo aria e cella, cella e aria. Sono un detenuto As (alta sicurezza) e con i miei compagni di braccio parlavo solo di reati». Esattamente come gli capitava in Sicilia da bambino. Quartiere piccolo. Pistole. Grandi boss da imitare. Un percorso obbligato. «Ho cominciato ad aprire un po’ gli occhi quando dietro le sbarre ho incontrato due ex terroristi. Uno dei Nar e uno delle Br. Mi hanno spinto a leggere. Balzac. Arrivato a Padova mi sono iscritto a ragioneria. Mi sono diplomato. Poi ho incontrato la Giotto. E il lavoro ha cambiato la mia mentalità. Ho scoperto che sono in grado di fare cose difficili. Ne vado fiero. E adesso in cella parlo di come affrontare il lavoro». Del passato vorrebbe cancellare tutto, come se potesse guardare le rovine di quella Torre di Babele siciliana. «Il lavoro ti cambia». Lo dice lui, lo dice Roberto («il lavoro ti fa sentire accettato come persona»), lo dice Mustafa («Non credevo che in carcere esistesse una realtà così»), lo dice Giovanni («sono entrato in relazione con gli altri»), lo dice Angelo, che in galera è arrivato nel ’91 e non è più uscito neppure un giorno. «Il lavoro mi ha rimesso in gioco. Mi ha preso dentro. Mi fa finalmente entrare anche nella testa degli altri ». Sul tavolo pizzette e cioccolatini. Li hanno fatti colleghi pasticcieri. Boscoletto dice: «Non serve la rivoluzione, in carcere. Basta applicare le leggi che ci sono già». Semplice. Ma su duecento carceri si contano sulle dita di due mani quelle che possono vantare esperienze simili. I detenuti che svolgono attività qualificanti sono meno del 5% del totale. Per gli altri bisogna fare affidamento ancora una volta a una frase scritta su uno dei muri bianchi del Due Palazzi. Una citazione rubata a un Peppone e Don Camillo di Guareschi, una speranza che è un meraviglioso nonsenso: «Non muoio neanche se mi ammazzano».

Rebibbia e castigo

Se il Due Palazzi di Padova è l’eccezione, il carcere romano di Rebibbia, monumento alla complessità, è la regola. Trecento detenuti al lavoro, mille e cento scaricati nell’assurdo limbo dell’ozio, ventidue ore in cella a guardare la tv, a stordirsi in un calderone di pensieri rancidi e a farsi indottrinare dai boss della criminalità organizzata. Qualcuno li spinge a lavorare? Nessuno. «Il carcere così com’è è più dannoso che utile. La legge parla di risocializzazione, ma qui io vedo solo reclusione. Rebibbia è un asilo infantile, un ospedale, una clinica per malati di mente e un concentrato di tossicodipendenti. E allora mi chiedo a che cosa serva spendere tutti questi soldi», dice don Pier Sandro Spriano, cappellano dell’istituto penitenziario dal 1989. L’amministrazione carceraria (55mila dipendenti, 38 mila guardie, 200 istituti di pena) parla di una spesa di tre miliardi l’anno, con un costo per detenuto di 125 euro al giorno, ma nei conti non considera le spese per l’edilizia, quelle per l’istruzione e i corsi di alfabetizzazione (i soli detenuto stranieri sono oltre 18 mila, come si entra in relazione con loro?), per le strutture informatiche o per i braccialetti elettronici. Numeri che sfuggono a qualunque radar, al pari delle statistiche sulla recidiva e sulla qualità dei rari percorsi riabilitativi. «Le leggi sono lì. E non sono neanche troppo male. Ma la verità è che il recupero viene fatto dal volontariato esterno, non esiste un sistema paese che se ne occupi», aggiunge don Spriano. Paradossalmente la politica parla con insistenza di ponti tra il dentro e il fuori, evitando però di occuparsi in maniera strutturale e non emergenziale del problema. «Questo governo ha creato un nuovo modello di pena, puntando su un cambio culturale che spinga verso una pena certa, umana e diretta a riabilitare i detenuti. Dunque anche a ridurre la recidiva», dice il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri . In galera però non si nota. «Dentro il carcere il percorso è più complicato, ma io mi impegno a raccogliere in maniera sistematica i dati sulla recidiva d’ora in avanti». Un’altra piccola promessa tardiva. E allora bisogna rifugiarsi nella speranza contenuta nella frase del carcere di Padova, quella scritta in portoghese. La pronunciò un galeotto brasiliano che dopo essere fuggito dodici volte da dodici prigioni diverse, fu mandato in una struttura gestita anche da civili. E da lì non se ne andò più. Quando il magistrato gli chiese: «perchè da qui non evadi?», lui rispose con cinque parole: «Dall’amore non si fugge».

Andrea Malaguti (La Stampa)

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