Milano 29 Settembre – Saranno anche “sorprendenti” – come ha detto a Cernobbio il premier – ma le riforme strutturali promosse dal governo Renzi hanno prodotto dei risultati davvero catastrofici. Basta guardare tutti gli indicatori e le stime, per altro elaborate da un istituto “nazionale” come l’Istat, che smentisce regolarmente il governo e il suo leader. All’inizio di settembre, infatti, i dati sul lavoro, quelli sulla fiducia e quelli sulla crescita-zero, hanno assestato un duro colpo alle ambizioni del premier di Rignano. Nel secondo trimestre, il Pil è rimasto invariato rispetto al trimestre precedente, aumentando solo dello zero virgola rispetto al secondo trimestre dello scorso anno. Ma Renzi sembra avere le fette di salame sugli occhi e fa finta di non vedere la realtà delle cose: “Il problema del 2016 non è l’economia, non perché vada bene, anzi. Ma se guardiamo da settembre 2015 ad oggi, molte questioni politiche di rilevante importanza sono sul tavolo della comunità internazionale e necessitano risposte inedite”, ha detto a Cernobbio qualche settimana fa. Illustrando per altro un’escalation che è solo nella sua percezione: “L’Italia prosegue la lunga marcia, il 2016 si chiuderà meglio del 2015, che si è chiuso meglio del 2014, che si è chiuso meglio del 2013, che si è chiuso meglio del 2012”. Di questo passo poteva risalire rapidamente al crollo del Muro di Berlino, al Sessantotto, alla Seconda guerra mondiale e poi alla Prima. Non solo il Pil è al palo da tempo. Anche altri indicatori sono preoccupanti: il debito pubblico è incomprimibile e sta volando ben oltre il 132% sul Pil ed è quantificato dalla Banca d’Italia in 2.231 miliardi di euro. In due anni e mezzo di governo Renzi è cresciuto di oltre 123 miliardi di euro. Non male come performance. E la spesa per gli interessi sul debito pubblico si aggira attorno agli 80 miliardi di euro. La fiducia delle imprese e dei consumatori si affievolisce. La disoccupazione è inchiodata al 12 per cento, mentre quella giovanile si alza. E gli sbarchi superano le 130mila unità: nel luglio 2011, con Roberto Maroni al Viminale, non raggiungevano le 50mila unità.
Questo è lo scenario – davvero drammatico – che dovrebbe preoccupare tutti gli uomini delle istituzioni seri e responsabili. Il Paese è in stallo, bloccato, fermo al palo, con una situazione generale che si aggrava ogni giorno di più. E la credibilità italiana in Europa è sotto zero: al prossimo vertice di Berlino – con il gotha dell’economia – Renzi non è stato neppure invitato. Ma il premier pare vivere su un altro pianeta. Insegue il referendum, trascurando tutto il resto. Il Consiglio dei Ministri dopo plurimi rinvii l’ha infine fissato il 4 dicembre. Peccato che si sia presto dimenticato di quello che disse all’inizio di giugno nello studio di Virus al povero Nicola Porro, indecentemente epurato dalla Rai: “Spero si voti il prima possibile, il più velocemente possibile. Spero il 2 ottobre”. Alla fine – vedrete – voteremo sessantadue giorni dopo, il 4 dicembre. Intendiamoci: il referendum costituzionale è sì decisivo. Ma nel senso opposto rispetto a quello che dice e pensa Renzi. Tre anni orsono la Confcommercio fece un’approfondita ricerca, dimostrando che se tutte le regioni adottassero i criteri di spesa di Regione Lombardia ci sarebbe un risparmio, in termini di spesa pubblica, di 76 miliardi di euro. Se poi, di fianco ai criteri di spesa, si puntasse anche alla qualità dei servizi erogati, il risparmio scenderebbe di circa 50 miliardi di euro. A tanto, infatti, ammontano gli investimenti necessari per ottenere il risultato. Questa riforma centralizza la più larga parte delle competenze regionali. Ora, ve le immaginate le competenze e i servizi oggi erogati dalla Lombardia, ma anche dal Veneto, dall’Emilia-Romagna e dalla Toscana – che sono le regioni in testa alla graduatoria del residuo fiscale, oggetto cioè della rapina fiscale – nelle mani della burocrazia parassitaria romana? Una burocrazia che – detto per inciso – non ha mai brillato per efficienza e competenza, ma in larga parte ha gravato sulla spesa pubblica improduttiva. Ebbene, con la centralizzazione delle competenze promossa dalla riforma Renzi-Boschi ci sarà un’impennata della spesa pubblica, perché i servizi erogati costeranno di più e saranno più scadenti. E la spesa pubblica crescerà ulteriormente anche per la confusione dei processi legislativi, la macchinosità delle procedure, il permanere del bicameralismo paritario e altre amenità che ci hanno riservato i novelli costituenti. Per tutto ciò, al referendum “Serve un No”. Deciso e convinto.
Stefano Bruno Galli (L’Intraprendente)
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845