Milano 14 Ottobre – Articolo di Maurizio Tortorella tratto dal numero di Tempi in edicola
«Non si può fare una riforma della giustizia contro l’Associazione nazionale magistrati o contro il suo presidente, Piercamillo Davigo.” È questa la frase (testuale!), che alcuni giornali hanno attribuito a Matteo Renzi come (mesta) spiegazione dello stop imposto in Senato alla riforma del Codice penale e di quello di procedura. Basta, giochi finiti, abbiamo scherzato: la «grande riforma» in 12 punti, lanciata nel giugno 2014 dal governo Renzi, pare irrimediabilmente arenata. Nessun voto di fiducia, e anzi rinvio “sine die” della discussione. Lo stesso governo che in passato ha varato norme contrastando sindacati come la Cgil, rappresentanti di milioni di lavoratori, oggi si piega di fronte a un’associazione che riunisce appena 8-9 mila magistrati. È l’ultima mortificazione della politica.
Quel che più urta è proprio il modo in cui la riforma renziana s’è andata a infrangere sullo scoglio dell’Anm, che ha addirittura minacciato uno sciopero. A nulla è servito l’attivismo del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha perfino trovato il coraggio di rintuzzare le critiche di Davigo. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (che Renzi ha appellato con l’infelicissima espressione di «capo dei giudici»: i giudici non hanno capo e sono soggetti soltanto alla legge) aveva dichiarato che molte delle innovazioni allo studio del Parlamento erano «inutili se non dannose», e il Guardasigilli gli ha risposto sottolineando con un filo d’ironia che «per metà» quelle innovazioni provenivano proprio dall’Anm. Insomma, erano riforme «condivise», proprio come aveva promesso Orlando qualche mese fa.
Senza troppi rimpianti
Non che le norme approdate al Senato fossero in grado di produrre risultati sconvolgenti in senso garantista, o che fossero capaci d’imprimere una particolare efficienza al nostro sistema giudiziario, questo no. Uno che se ne intende, il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, per due volte chiamato a redigere una proposta di riforma di quei codici, ha detto che le nuove norme, anche quelle meglio congegnate, «avrebbero fatto la fine delle precedenti perché edificate su due impalcature decrepite».
Nessun rimpianto particolare, quindi. Ma è evidente che a scatenare l’attacco finale di Davigo è stata la prova di forza sull’allungamento dei termini di prescrizione: Davigo, e con lui alcuni magistrati-senatori, puntava a processi senza fine. In Senato c’è chi (il magistrato Felice Casson, eletto con il Pd) ha presentato un emendamento per interrompere la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Questo era l’obiettivo di Davigo. Il suo attacco finale, quasi sicuramente, è stato determinato dal fatto che proprio sulla prescrizione le forze politiche avevano trovato un accordo diverso.
Il presidente del Consiglio ne esce malissimo. Sarà stata la sua paura nei confronti di una maggioranza governativa che sulla giustizia è ancora più frammentata che su altre materie. Sarà stata l’ansia da consenso in previsione del referendum istituzionale del 4 dicembre, cui in qualche maniera ha collegato le sue sorti personali. Sta di fatto che, con questa retromarcia, Matteo Renzi mostra una debolezza vera e inusitata. Anche se non è il primo presidente del Consiglio che sulla giustizia alza le braccia, questo suo evidente piegarsi alle pressioni di istanze estranee al Parlamento non fa onore né a lui né alla politica. E comporta un danno incalcolabile per l’Italia. Perché la giustizia di questo paese aspetta una vera riforma, incisiva e radicale. Realizzata da una politica competente e coraggiosa, che decida e scelga e voti senza guardare in faccia a nessuno.
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