Call center, l’assurdo di un’industria che riesce a scontentare lavoratori e clienti

Attualità

Milano 22 Ottobre – Nell’economia moderna tutti vi diranno che il rapporto con il consumatore finale è decisivo, il potere di scelta si è spostato «a valle» e di conseguenza le aziende dovrebbero prestare la massima attenzione a tutte le fasi che riguardano la relazione con il cliente. Nei fatti, però, l’industria dei call center, che si situa proprio a valle, è nata in Italia come un’attività povera, sottoposta quasi sempre al ricatto delle gare al massimo ribasso. Il risultato è che chi ci lavora è demotivato e i consumatori che telefonano restano spesso insoddisfatti/irritati. Fa eccezione una piccola fascia di aziende — che corrisponde a un 20% degli addetti — che invece forma gli operatori telefonici, li stabilizza contrattualmente, ne cura l’aggiornamento.

Lavoro routinario

Il resto è una giungla dove l’ambiente ad alta tecnologia convive con un lavoro sostanzialmente routinario e senza sbocchi di mobilità. I ragazzi dei call center che a suo tempo ispirarono un film di Paolo Virzì del 2008 («Tutta la vita davanti») hanno paghe molto differenziate a seconda dei diversi regimi d’orario e anche per questo motivo è difficile per loro condividere strategie rivendicative. Con l’eccezione del rischio chiusura, come sta avvenendo in questi giorni e come sottolinea Rita Palidda del team dell’università di Catania che ha monitorato in questi anni con maggiore continuità gli occupati del settore. Al Sud, dove per l’appunto è dislocata una buona parte dei call center, gli operatori hanno un livello di istruzione più elevata (59% è diplomato) di quelli del Nord. Anche la loro età media è più alta (30-39 anni) e il tasso di femminilizzazione a Catania ha superato negli anni scorsi il 67%. Viste anche le condizioni del mercato del lavoro meridionale si entra in un call center considerandolo «un lavoro di transito» ma poi giocoforza ci si rimane. In particolare gli addetti all’inbound — ovvero quelli che ricevono le telefonate — denunciano un tipo di lavoro estremamente taylorizzato, un fordismo dell’epoca moderna, molto gerarchizzato e con un elevatissimo livello di controlli (tipo doppia cuffia). Un’industria povera che offre lavoro povero è anche costretta a rincorrere i prezzi per tenere a bada la concorrenza della delocalizzazione nei Paesi stranieri (Albania e Marocco in testa).

Anche tre euro all’ora

Il risultato è che, a fronte di coloro che usufruiscono di un lavoro a tempo determinato, gli altri vengono palleggiati di appalto in sub-appalto e rischiano di finire a lavorare anche per 3 euro all’ora. In teoria gli addetti all’outbound — telefonate in uscita — avrebbero mansioni più ricche come ricerche di mercato, sondaggi politico-elettorali, indagini a campione delle istituzioni, ma si lamentano anche loro di una standardizzazione estrema e di un’attenzione spasmodica ai tempi di lavoro e all’utilizzo delle pause. Se usiamo lo schema del sociologo Antonio Schizzerotto sulle tre classi operaie (gli addetti al 4.0, i fordisti tradizionali e, infine, facchini e badanti) la tentazione è di inserire gli addetti ai call center nel terzo girone per scarsa qualificazione delle mansioni, rischio di perdere il posto di lavoro e frantumazione organizzativa. È uno dei tanti paradossi dell’economia moderna perché alla fine le aziende committenti pagheranno anche il minimo per avere le loro tabelle di ricerca ma il rischio che siano approssimative è altissimo. (Corriere)

 

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