L’abitare di Roberto Cotroneo

Cultura e spettacolo

Milano 23 Ottobre – Uscito su Sette, allegato del Corriere della Sera, riprendiamo dal blog personale dell’autore questo suo pezzo di fine analisi sociologica.

Per qualche anno ho vissuto a Milano. All’ultimo piano dell’edificio abitavano due anziani e distinti professori. I loro appartamenti erano sullo stesso pianerottolo. Erano tempi in cui internet non esisteva ed esistevano ancora i computer. Sorta di macchine che ti permettevano al massimo di scrivere e compilare un database. La mattina accadeva spesso di trovarsi davanti all’ingresso del condominio dove c’erano le caselle della posta: erano di vetro, con i nomi ordinati su targhette in ottone. I due anziani insegnanti vivevano un’autentica competizione. Quello meno anziano dei due aveva sempre una cassetta della posta piena di lettere, l’altro poco o niente. Per cui c’era sempre una battuta invidiosa da parte di chi non riceveva molta posta, che era sempre più o meno questa: «eh certo che lei tutta quella posta… cosa ci sarà mai, tutta reclame immagino». Mentre l’altro esibiva orgoglioso le vecchie buste azzurrine  leggere e sottili, della posta aerea, con francobolli esotici mai visti.

L’altro giorno mi è capitato di immergermi in un’installazione al Macro Testaccio di Roma. Il museo di arte contemporanea ricavato nelle strutture e negli spazi dell’ex mattatoio. L’installazione di Kurt Hentschläger, che si chiama Zee, ti fa sparire in una nebbia fittissima, dove perdi ogni riferimento, e dove suoni e luci contribuiscono a generarti un senso di completo spaesamento. L’esperienza può essere molto angosciante, l’unica àncora di salvezza che ti viene data è una corda alla quale puoi aggrapparti.

Perché in quel momento, perso nel nulla, mi siano tornati in mente i due professori di Milano non è così eccentrico. Quelli erano gli anni della grande riscoperta del filosofo tedesco Martin Heidegger. Uomo complesso e controverso che ha cambiato la filosofia del Novecento. Heidegger si è occupato dell’idea filosofica dell’abitare. Abitare è, detto in un modo molto semplice, il radicarsi, la familiarità, l’antitesi allo spaesamento. Quando i due professori misuravano il proprio ruolo nel palazzo attraverso la quantità di lettere ricevute esibivano qualcosa di cartaceo che arrivava a destinazione, in un luogo preciso. Dentro un sistema che aveva riti e meccanismi consueti.

La posta non arriva quasi più, sono al massimo bollette da pagare. Non si sfoglia rapidamente davanti alle cassette con le targhette in ottone. Le mail, come tutto il web, sono un elemento dello spaesamento contemporaneo. Dove per spaesamento c’è proprio la stessa nebbia dell’artista Kurt Hentschläger al Macro di Roma. Vengono dal nulla e portano al nulla. Oggi il mondo del web è arredare luoghi fantasmatici che ci illudiamo di abitare. Sono quelli che curano il loro profilo facebook o instagram mettendo l’immagine di sfondo, che dànno indicazioni sui componenti della propria famiglia, a loro volta sui social, che fanno riferimento alle mail più interessanti che ricevono, e le copiano sul loro profilo, che mostrano le foto della loro vita quotidiana, come le appendessero in una parete di casa, mostrandoti l’album di famiglia.

Ma lo spazio del web non è uno spazio abitato, esiste anche se noi non ci siamo. «Lo spazio non è qualcosa che sta di fronte all’ uomo», diceva Heidegger: «la relazione tra l’uomo e lo spazio non è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza». In pratica lo spazio c’è nel momento in cui lo abiti. Per fare un esempio semplice, non ha importanza sapere chi ha costruito la tua casa, e chi l’ha abitata prima di te: nel momento in cui la abiti diventa il tuo luogo di vita.

Abitare lo spazio non è una bizzarria filosofica. E non riuscirci più porta al senso di spaesamento che abbiamo in questi anni. Impossibilitati ad abitare uno spazio che ha preso tutto il nostro quotidiano – anche, la cassetta della posta nel condominio di casa – proviamo ad arredare lo spazio del web, ma non siamo più veramente in grado di abitarlo, di trasformarlo in qualcosa che non sia fantasmatico e indefinibile. A volte questo spaesamento lo chiamiamo globalizzazione, a volte pensiamo che è un destino inevitabile. In realtà viviamo in un sistema di fantasmi, di non luoghi, di inconsistenze, dentro questo nostro mondo che non sappiamo abitare e sempre più estraneo.

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