Milano 27 Ottobre – Parla Giulia Silvia Ghia, una delle autrici del volume Caravaggio. Opere a Roma. Tecniche e stili, ultima pubblicazione di approfondimento sull’artista. «Senza indagini diagnostiche impossibile indagare i confronti e le attribuzioni» L’articolo di Giulia Silvia Ghia è stato pubblicato da ArteMagazine e vuole essere un omaggio al grande pittore, ma anche al progetto di ricerca e di analisi dei tanti studiosi che hanno partecipato con passione al progetto. Nel riproporre l’articolo un doverso grazie a Giulia Silvia Ghia.
Madre di tre figli, storica dell’arte e restauratrice, lavora a tempo pieno come CEO di Verderame progetto cultura, ama definirsi imprenditrice culturale, Giulia Silvia Ghia racconta ilCaravaggio che ha scoperto nei lunghi anni serviti per realizzare Caravaggio. Opere a Roma. Tecniche e stili, prezioso volume che è in realtà il risultato di un vero e proprio progetto di ricerca promosso nel 2009 dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del IV centenario della morte di Caravaggio, presieduto da Maurizio Calvesi, e la Soprintendenza Speciale per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Roma. Allora l’istituzione romana, dal 2012 diretta da Daniela Porro, era guidata da Rossella Vodret, che ha continuato a seguire il progetto come vicepresidente del comitato. Giulia Ghia non è stata l’unica, ovviamente, a lavorare al volume. Con lei Beatrice De Ruggieri e Marco Cardinali, assieme a Giorgio Leonee la stessa Rossella Vodret.
Le tecnologie utilizzate per scandagliare ancora una volta a fondo le opere di Caravaggio non sono una novità. Perché in questo volume edito da Silvana Editoriale, quindi, si parla di Caravaggio visto da una diversa prospettiva proprio grazie a queste nuove tecnologie?
«È’ vero. Queste indagini erano già state utilizzate, ma molti anni fa, ora sono più evolute e più efficaci. Quindi i risultati sono stati migliori. Soprattutto abbiamo potuto scardinare con prove scientifiche alcune teorie false sul modo di lavorare di Caravaggio».
Le più importanti?
«Grazie alle analisi dignostiche utilizzate abbiamo potuto testimoniare con estrema chiarezza che Caravaggio era solito disegnare le sue composizioni utilizzando diversi mezzi tra cui anche il disegno grafico e a pennello oltre alle note incisioni, che sono ora tutte mappate con estrema precisione in questa pubblicazione. Inoltre, che a volte riutilizzava tele o precedentemente dipinte da altri come il caso della Buona Ventura dei Capitolini o perchè sovrapponeva sue diverse versioni di uno stesso soggetto come è il caso tra tutti del Martirio di San Matteo. In ultimo certamente direi l’uso della camera ottica, in voga tra alcuni pittori dell’epoca, ma non certamente usata da Caravaggio».
Come si è arrivati a dimostrare tutto ciò?
«Per prima cosa dobbiamo chiarire il campo d’azione del nostro studio: si tratta dei 22 dipinti di Caravaggio che si trovano attualmente a Roma. Parliamo quindi delle tele conservate a San Luigi dei Francesi, alla Borghese, alla Galleria Doria Pamphili, alla Galleria Corsini, ai Musei Capitolini, ai Musei Vaticani e al Casino Ludovisi. Radiografie e riflettografie di questi dipinti hanno permesso di rendere giustizia a Caravaggio su alcune attribuzioni di metodo che gli erano state addossate nel corso dei secoli».
Nel dettaglio?
«Grazie alle radiografie abbiamo appurato che al di sotto dell’opera così come noi oggi la vediamo, esistono sia pentimenti, che tracce di disegno preliminare, soprattutto nelle opere giovanili dove la preparazione più chiara permette al tratto grafico di emergere sotto il colore, rimanendo visibile a volte anche ad occhio nudo. Per esempio Il ragazzo con la canestra di frutta dellaGalleria Borghese, ha svelato i disegni sottostanti. Labbra, frutta, canestra mostrano le tracce dei segni precedenti alla pittura. Inoltre abbiamo avuto conferma che riutilizzava le tele: ad esempio al di sotto della Buonaventura dei Capitolini è emersa chiaramente una Madonna precedentemente realizzata, di cui Caravaggio ha voluto riutilizzare la tela su cui era stata dipinta. Si è fatto luce anche sulla teoria che voleva la camera oscura utilizzata da Caravaggio: siamo certi ormai che non è così. Mentre sicuramente utilizzava gli specchi per ricreare quei tagli di luce che poi riproduceva nei suoi dipinti».
Oltre a radiografie e riflettografie si sono utilizzate anche altre indagini diagnostiche avanzate?
«Si. Abbiamo utilizzato ad esempio un macchinario realizzato appositamente dall’Università di Anversa grazie al quale è possibile effettuare un MA-XRF, cioè una scansione degli elementi chimici che sono presenti nei vari pigmenti diffusi sulla tela. E grazie a questa possibilità si è potuta realizzare una sorta di mappatura stratigrafica dei dipinti presi in esame».
Quale era, a suo giudizio, lo stato di salute delle opere di Caravaggio che avete studiato?
«Quelle che abbiamo trovato nelle migliori condizioni di conservazione sono certamente i due dipinti della collezione Doria Pamphili: il Riposo durante la fuga in Egitto e la Maddalena».
E, dai risultati delle analisi, sono scaturiti interventi di restauro?
«Più che di restauro di pulitura, proprio per le due tele della Galleria Doria Pamphili a cui facevamo riferimento poco fa. Abbiamo riscontrato un invecchiamento generale delle condizioni dei quadri dovuto all’ingiallimento della vernice di protezione superficiale che aveva reso giallo un po’ tutta la superficie sottostante. Abbiamo rimosso la vernice e ripulito i colori scoprendo anche, tra le altre cose, che all’altezza del seno della Maddalena, è stato dipinto, nel ‘700, un pizzo con l’obiettivo, piuttosto comune in quel periodo, di coprire le zone del corpo nude, considerate scandalose. Anche in questo caso è stato determinante l’uso del MA_XRF che ha messo in evidenza che si trattava di due momenti diversi della fase pittorica».
C’è un’eredità che questi anni di studio le hanno lasciato?
«Oltre al brivido di aver toccato realmente con mano un protagonista della storia dell’umanità secondo in quanto a fama, credo, solo a Gesù e a Michelangelo, quest’esperienza mi ha lasciato la passione per la conoscenza della materia di cui sono fatte le opere d’arte e la volontà di comprenderne il passaggio nella storia, la loro trasformazione dovuta all’invecchiamento irreversibile dei materiali che le costituiscono, e dunque la loro salute attuale ovvero come le vediamo noi oggi. Nel caso specifico ho maturato l’assoluta consapevolezza che non si può parlare di attribuzioni e di confronti prescindendo dallo stato conservativo delle opere in questione. Certamente le indagini diagnostiche sono un necessario contributo per comprendere, e quindi giungere a delle corrette conclusione in merito. Tutti questi anni sono stati un impagabile viaggio, quasi nel tempo, tra gli strati della pittura dei 22 dipinto di Caravaggio presi in esame, alla scoperta sia del modus operandi del Merisi ma anche e sopratutto del procedimento creativo del genio che le ha generate».
Scritto da Maria Grazia Filippi
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