Milano 29 Ottobre – Ogni anno 5.125 procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa si concludono accertando querele infondate e pretestuose. Sono il 70 per cento del totale. Nel frattempo i giornalisti coinvolti devono sostenere le spese legali (oltre 50 milioni l’anno). Ma ogni tanto arriva la galera
Ogni anno i giornalisti italiani ricevono migliaia di querele. E dopo lunghi processi e spese legali da sostenere, si scopre quasi sempre che le accuse erano infondate. Veri e propri abusi che intasano la macchina della giustizia e mettono a rischio la libertà di stampa nel nostro Paese. Lo dicono i numeri. Il 70 per cento dei procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa si concludono accertando la pretestuosità delle querele. I pochi cronisti che vengono condannati, però, rischiano molto. Tanto che nel 2015 sono stati comminati in totale 103 anni di carcere.
Lo scenario è preoccupante. Lo raccontano in maniera asettica i numeri dell’ufficio statistiche del ministero della Giustizia, pubblicati per la prima volta in un dossier dell’associazione Ossigeno per l’informazione. Sono dati inediti, che hanno sorpreso gli stessi addetti ai lavori. Nel 2015 i tribunali italiani hanno definito 5902 cause penali per diffamazione a mezzo stampa. Di queste, però, solo 475 si sono concluse con una condanna. Segno evidente della larga diffusione di accuse pretestuose. Eppure il giornalismo non è un mestiere privo di rischi. In 155 casi, infatti, i giornalisti coinvolti sono stati condannati a una pena detentiva.
«In Italia è fin troppo semplice avviare un procedimento penale per diffamazione. Con poca spesa si può accusare, anche senza fondato motivo, chi in realtà scrive soltanto qualcosa di sgradito. Raramente gli abusi sono perseguiti. E molto spesso il querelante non è condannato neppure a pagare le spese legali sostenute dal giornalista prosciolto»
Non stupisce se nell’annuale graduatoria sulla libertà di stampa stilata da Reporters sans frontieres il nostro paese continua a perdere posizioni. Nell’ultima edizione siamo arrivati al 77esimo posto, tra gli ultimi in Europa. Non è solo un termometro di asservimento al potere. Chi ironizza sulla classifica dovrebbe guardare questa professione da una prospettiva diversa. In Italia trenta cronisti sono attualmente sotto scorta. E centinaia di altri giornalisti, colpevoli di aver raccontato storie poco gradite, sono spesso vittime di aggressioni fisiche, minacce, insulti. «Ma non ci sono solo intimidazioni di stampo mafioso» racconta a Montecitorio il deputato Claudio Fava, che un anno fa ha curato una relazione della commissione Antimafia su questo tema. «L’abuso degli strumenti che mette a disposizione il diritto è una delle forme più violente ed efficaci per incidere sulla libertà di stampa».
Il dossier di Ossigeno inquadra un aspetto poco conosciuto, raccontando le migliaia di querele per diffamazione a mezzo stampa. Quasi sempre «esagerate, infondate, pretestuose, presentate soltanto per mettere il bastone tra le ruote ai cronisti». Le cifre, prima di tutto. Secondo il documento presentato in Parlamento, nell’ultimo biennio i tribunali si sono espressi su 6813 procedimenti l’anno. Hanno definito 5902 cause penali e 911 civili, a cui si aggiungono 1300 procedimenti pendenti. Dati importanti. E in crescita, visto che le querele aumentano di circa l’8 per cento l’anno. Come detto, gran parte delle azioni giudiziarie si conclude senza alcuna condanna. «Il fatto che soltanto una percentuale esigua di denunce sia convalidata da una sentenza di colpevolezza – racconta il direttore di Ossigeno Alberto Spampinato, anche lui presente a Montecitorio – significa che moltissime querele contengono accuse infondate e pretestuose». Il danno e la beffa. «Molte querele e citazioni per danni da diffamazione a mezzo stampa sono presentate per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la tutela della reputazione. Sono veri e propri abusi del diritto che fanno girare a vuoto la macchina della giustizia, e la trasformano in un’arma di intimidazione, in un bavaglio per giornali e giornalisti»
Il motivo è presto detto. Davanti alla lunghezza dei processi, alle spese sostenute per difendersi e al rischio di condanne, gli autori degli articoli incriminati, e così i loro giornali, specie se piccoli, sono costretti ad adottare grande prudenza. Arrivando, in alcuni casi, ad autocensurarsi. Ma cosa succede dopo l’accusa? Gran parte dei procedimenti finisce su un binario morto. Il 70 per cento delle querele, si legge, viene archiviato dal GIP. «Dai pronunciamenti dei giudici emerge che oltre i due terzi dei procedimenti sono sostanzialmente infondati». Prendendo in considerazione il rimanente 30 per cento, nel biennio 2014-2015, i tribunali hanno deciso per l’assoluzione nel 26,4 per cento dei casi, per il non luogo a procedere nel 32,4 per cento e per una condanna in un altro 30 per cento. E chi abusa delle querele, spesso lo fa senza correre alcun rischio. «In Italia è fin troppo semplice avviare un procedimento penale per diffamazione. Con poca spesa si può accusare, anche senza fondato motivo, chi in realtà scrive soltanto qualcosa di sgradito. Raramente gli abusi sono perseguiti. E molto spesso il querelante non è condannato neppure a pagare le spese legali sostenute dal giornalista prosciolto».
Nell’ultimo biennio i tribunali si sono espressi su 6813 procedimenti l’anno. Hanno definito 5902 cause penali e 911 civili, a cui si aggiungono 1300 procedimenti pendenti. Dati importanti. E in crescita, visto che le querele aumentano di circa l’8 per cento l’anno. Come detto, gran parte delle azioni giudiziarie si conclude senza alcuna condanna
Nel frattempo il giornalista deve nominare e pagare un avvocato difensore. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel 2010-2013 le indagini preliminari nei procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa hanno richiesto oltre due anni e mezzo. E nei pochi casi di rinvio a giudizio, sono serviti altri tre anni e dieci mesi per emettere la sentenza. Risultato? «Si calcola che i giornalisti querelati devono spendere ogni anno almeno 54 milioni di euro per sostenere le sole spese di difesa legale». Intanto, nel 2015, 475 giornalisti sono stati condannati per il reato di diffamazione. Due su tre, al pagamento di una multa. E 155 a pene detentive. «Prima della pubblicazione di questi dati – spiega Spampinato – non era noto che in Italia la reclusione fosse così frequente per questo genere di reati». E invece, leggendo le cifre del ministero della Giustizia, il dossier stima un totale di 103 anni di carcere all’anno.
Ma non c’è solo il rischio di una pena detentiva. In quattro anni, dal 2010 al 2013, «in Italia sono state promosse 3643 cause civili per chiedere il rimborso di danni, veri o presunti, da diffamazione a mezzo stampa». In media si chiedono ogni volta circa 50mila euro. In totale le richieste di risarcimento raggiungono i 45 milioni di euro l’anno. Per il quadriennio considerato si arriva a 182 milioni di euro. «Una cifra enorme» spiega il dossier. Che rischia di avere pesanti ripercussioni sulla libertà delle imprese editoriali, specie le più piccole.
di Marco Sarti (Linkiesta)
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