Milano 28 Novembre – «Vi sono leggi che il legislatore conosce così poco, che sono contrarie allo scopo ch’egli si è proposto»: ebbe modo di notare acutamente uno dei padri dello Stato di diritto odierno, cioè Charles Montesquieu.
La pungente osservazione del celebre filosofo francese è perfettamente calzante con il caso della riforma costituzionale Renzi-Boschi, poiché tale riforma che pretende di semplificare la dimensione costituzionale ed istituzionale italiana ne modifica a tal punto la struttura da alterarne perfino la sostanza, con gravi ripercussioni per l’assetto dello Stato di diritto sotto almeno tre profili: la democraticità, la rappresentatività e la separazione dei poteri.
La capacità democratica delle istituzioni italiane è messa in serio pericolo a causa della riforma costituzionale in quanto il Parlamento, legislativo per eccellenza, al quale è demandato da un lato il compito di rappresentare la molteplicità delle correnti ideologiche e culturali che compongono l’elettorato, e dall’altro quello di essere, appunto, il mandatario della potestà legislativa principale che promana come sua facoltà dalla sovranità di cui il popolo è titolare, viene sostanzialmente ridotto ad organo subordinato del Governo.
In buona sostanza si ribaltano i ruoli: se fino ad ora è stato il Governo ad essere subordinato al Parlamento, con la riforma Renzi-Boschi sarà il Parlamento ad essere subordinato al Governo, non tuttavia nella direzione della creazione di un presidenzialismo o di un premierato forte, ma nel senso di gran lunga più specioso della creazione di una sorta di “governismo”, cioè di dirigismo di Governo, come comprova, tra i tanti esempi possibili, non solo l’erosione della potestà legislativa del Senato, ma anche la circostanza per cui il Governo potrà dettare al Parlamento le tempistiche per l’approvazione di una nuova legge (art. 12 del testo della riforma).
Alla base di tutta la riforma, infatti, vi sono almeno due idee: l’efficienza, intesa come velocità nel varo delle leggi, e il risparmio, dimenticando quanto in realtà, affinché una buona legge sia tale, non è rilevante il tempo con cui essa è approvata o i danari che consente di far risparmiare alla ragioneria dello Stato, ma, semmai, se essa sia giusta, o almeno giuridicamente corretta, cioè non in contrasto con altre norme o principi dell’ordinamento (come, per esempio, nel caso di una “legge-lampo” che fosse approvata permettendo la maternità surrogata a pagamento o anche soltanto gratuita).
La rappresentatività viene ridotta non soltanto perché il Senato non è più elettivo, e sostanzialmente nominato, ma anche dalla circostanza per cui la riforma Renzi-Boschi limita fortemente la partecipazione popolare alla vita politica e giuridica del Paese, come comprova l’innalzamento stratosferico del numero di firme necessarie per la promozione di un disegno di legge popolare o di un referendum abrogativo (rispettivamente art. 11 e 15 del testo della riforma).
In merito, è inevitabile constatare che l’obiezione secondo cui ciò non altera la partecipazione popolare poiché in 60 anni di vita repubblicana sono stati pochissimi i casi di leggi popolari, non può essere accolta se non come mero pretesto; se, infatti, l’intento del riformatore fosse stato davvero quello di aumentare la partecipazione popolare alla vita politica e giuridica, il numero delle firme avrebbe dovuto essere diminuito e la procedura snellita; così invece non è stato, facendo balzare dalle attuali 50.000 firme necessarie per presentare un disegno di legge di iniziativa popolare a ben 150.000 firme, cioè sostanzialmente triplicando il valore di partenza.
Posto che non si sarebbe mai potuto elidere del tutto e formalmente un tale istituto (che democrazia è quella in cui il popolo non può proporre una legge o non può chiederne l’abrogazione?), lo si è appesantito a tal punto da renderlo formalmente presente, ma sostanzialmente inutilizzabile con un aggravio di tale portata.
In sostanza, la riforma Renzi-Boschi cancella la possibilità dei disegni di legge di iniziativa popolare. Un quesito inevitabilmente sorge: se è vero, come è vero, che in 60 anni di vita repubblicana sono stati pochissimi i disegni di legge di iniziativa popolare, che motivo c’era di riformare anche questo istituto della Costituzione? Non andava forse bene già com’era? Perché se già è stato raro il suo utilizzo si è avvertita la necessità di aggravarne la procedura triplicando le firme necessarie?
Infine, viene in rilievo l’esorbitante previsione dell’art. 13 della riforma Renzi-Boschi che nella sua sostanza modifica e innova le funzioni della Corte Costituzionale.
Secondo quanto immaginato dai Padri costituenti del 1948 la Corte Costituzionale ha soltanto una natura di carattere giurisdizionale chiamata ad essere presidio della legittimità costituzionale dell’agire delle istituzioni dello Stato esercitando le sue quattro tipiche funzioni: 1) giudicare la legittimità costituzionale delle leggi; 2) risolvere conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato; 3) giudicare dello stato d’accusa mosso al Presidente della Repubblica; 4) valutare l’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo.
In tutti questi casi la Corte Costituzionale esercita il proprio ruolo in un tempo successivo al verificarsi dei fatti e degli eventi che è chiamata a giudicare, come qualunque ordinario organo giurisdizionale.
L’art. 13 della riforma Renzi-Boschi, invece, introduce una nuova e inedita funzione della Corte Costituzionale, cioè quella preventiva e consultiva di giudizio di legittimità costituzionale delle leggi elettorali.
La scelta riformatrice fa sorgere parecchi quesiti: 1) perché una tale nuova funzione? Non si tenta di de-responsabilizzare il legislatore? Non sarebbe meglio che il legislatore sviluppasse una propria sensibilità costituzionale specialmente allorquando si tratta di approvare leggi elettorali? 2) come può un organo giurisdizionale entrare nel processo di formazione delle leggi anche se soltanto per valutarne la legittimità costituzionale? Non si infrange quella separazione dei poteri che è un principio cardine della democrazia e dello Stato di diritto? 3) Perché una tale funzione consultiva della Corte Costituzionale viene introdotta soltanto per le leggi elettorali e non invece anche per altre leggi anche più delicate (per esempio in materia di lavoro o sanità) di quelle elettorali? 4) Introdotto questo principio, chi potrebbe impedire a futuri riformatori costituzionali di estendere una tale funzione consultiva preventiva della Corte Costituzionale? 5) In un tale scenario che ne sarebbe dei brandelli rimasti del principio di separazione dei poteri?
Come si intuisce, si tratta di tutt’altro che di una semplificazione del sistema, anzi, è evidente che ci si trova dinnanzi ad una inutile e pericolosissima complicazione dello stesso.
Si comprende bene, dunque, come le ragioni del “No” non sono né ideologiche, né politiche, né partitiche, ma sono tutte squisitamente di carattere giuridico e sistematico, rappresentando semmai il presidio di tutela di principi cardine della democrazia e dello Stato di diritto che la riforma Renzi-Boschi rischia di travolgere e stravolgere.
La riforma Renzi-Boschi spinge il sistema costituzionale e istituzionale italiano in tre direzioni – erosione della sovranità popolare, concentrazione del potere nelle mani del Governo, alterazione del bilanciamento tra poteri dello Stato – che si adunano tutte sul medesimo punto focale: un affievolimento del costituzionalismo italiano contestuale all’instaurazione di un moderno assolutismo simulato, per cui proficue si propongo le osservazioni di uno dei maggiori studiosi del costituzionalismo come Carl Friedrich, il quale ebbe giustamente a notare che «l’assolutismo in tutte le sue forme, prevede la concentrazione dell’esercizio del potere; il costituzionalismo, al contrario, la ripartizione dell’esercizio del potere».
Contro una simile deriva s’impone l’obbligo morale per ogni cittadino italiano di qualunque orientamento politico, religioso e ideologico di votare “No” al referendum del prossimo 4 dicembre.
Aldo Vitale (Tempi)
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