Milano 3 Dicembre – All’inizio doveva essere una rivoluzione culturale. Con i reperti del passato disposti sul palco della Leopolda come simboli dell’anacronismo di una generazione sconfitta. Poco importa che per molti di quella generazione la Vespa sia stata uno dei segni del benessere conquistato e uno strumento di libertà o che il gettone telefonico abbia permesso ore di interminabili conversazioni con la fidanzatina del momento. La vera cesura del renzismo era l’insofferenza nei confronti della“meglio gioventù”, accusata di avere occupato il campo di gioco della politica senza permettere il preteso ricambio generazionale ma soprattutto capace di tenere il punto nell’occupazione dell’immaginario collettivo: Beatles e Rolling Stones, Sessantotto e scazzottate al “Giulio Cesare” cantato da Venditti. Ecco, i cantautori. Alla Leopolda del 2010, quando la cifra del renzismo era quella generazionale e accanto al sindaco di Firenze c’era ancora Pippo Civati, la colonna sonora era “Viva la vida” dei Coldplay, non “La canzone popolare” di Ivano Fossati – l’inno quasi ufficiale dell’Ulivo – o uno di quei pezzi nostalgici di Francesco Guccini o degli altri cantautori che avevano emozionato la generazione del Sessantotto. Come quelli che si commuovevano, di fronte al video che salutava la liquidazione del Pci, ascoltando l’improbabile elegia cantata da Francesco De Gregori: “La storia siamo noi / nessuno si senta escluso…”.
La rottamazione era, prima di tutto, un rito pop. La Leopolda un rito di iniziazione, la celebrazione di un passaggio per cui sarebbero andate bene le parole di un altro celebre inno: “Giovinezza, giovinezza / primavera di bellezza”. L’implicito bullismo anagrafico era più o meno lo stesso. Anche il carattere sommario del giudizio storico sul passato un déjà vu. Erano i tempi in cui Matteo Renzi e il cellulare costituivano un’endiadi. Per i maligni, lo strumento con cui Giorgio Gori poteva imbeccarlo in tempo reale, più o meno come Gianni Boncompagni con Ambra Angiolini ai tempi di “Non è la Rai”. Era tutta un’orgia di tweet e di post su Facebook, basata sul presupposto, del tutto infondato, che l’uso dei social media fosse una prerogativa esclusiva dei più giovani, che il confine tra vecchio e nuovo fosse rappresentato essenzialmente dall’accesso, e dall’esclusione, di una modalità comunicativa in tempo reale, effimera quanto perentoria. La connessione con la Rete come espressione di un nuovo “cogito ergo sum”, come prova ontologica del proprio esserci, nel posto giusto, al momento giusto, per rivendicare il meritato protagonismo sulla scena politica.
Qualcuno aveva rubato il futuro a una generazione che ora premeva per un cambiamento radicale. Questa era del resto la promessa del leader. Che, nel 2015, dopo il licenziamento via Twitter di Enrico Letta, veniva già coniugato al passato. Come se la missione fosse stata definitivamente compiuta: “Guardate che casino abbiamo combinato, abbiamo rovesciato il sistema politico più gerontocratico”. Pare che invece ora, chiudendo la manifestazione per il Sì al referendum di Roma, pochi giorni fa, Renzi sia salito sul palco accompagnato dalle note di “’O sole mio”. Il ritorno al futuro di Matteo Renzi è fatto anche di simboli, dunque. A chi, dopo la sua ascesa al potere, gli chiedeva di praticare un radicale spoil system, Renzi in effetti aveva sostanzialmente replicato che ormai non ce n’era bisogno perché gran parte della classe dirigente era diventata renziana. Un po’ quello che era successo negli anni “20 del secolo scorso a un altro politico ambizioso diventato capo del governo a 39 anni sulla spinta di un movimento giovanilista. Quando i “poteri forti” avevano scelto di indossare la camicia nera.
Per uno che si era imposto dichiarando guerra all’establishment, l’endorsement di Confindustria, delle banche, dei giornali di proprietà delle grandi famiglie, di gran parte delle burocrazie sindacali, delle cooperative e di molti intellettuali convertitisi alla goliardia toscana imperante è un paradosso non da poco. Ma Renzi se lo merita. L’uomo che aveva l’ambizione di rovesciare l’Italia e persino l’Europa come un calzino si è ridotto a sfruttare il sofferto sostegno al referendum di Romano Prodi e dei sodali di Denis Verdini, per non parlare di quello di Wolfgang Schauble. Chi ha letto attentamente la legge di stabilità attualmente in discussione giura di non avere mai visto niente di simile: uno sfarinamento delle poche risorse strappate alla Commissione europea con l’alibi della flessibilità utilizzate per distribuire mance e per ammiccare ai “territori”, come e più che nei peggiori incubi degli anni del pentapartito. Contratti che vengono miracolosamente siglati dopo anni di apnea del governo e degli industriali amici. La campagna elettorale più furbesca e dispendiosa che si ricordi. Tutto sacrificato al dio consenso e alle ambizioni personali di un leader che considera il potere come un luogo da occupare.
Il Neue Kurs comunicativo ha perso qualsiasi appeal e si rivela anzi controproducente. Basta vedere le rilevazioni del consenso presso i giovani per registrare la pesantezza dello scacco subito. A salvare Renzi, per sua stessa ammissione, ora potrebbe essere solo il combinato disposto delle schede votate in qualche modo dagli “italiani all’estero”, delle promesse pagate con i soldi dei contribuenti e del trasformismo dei vecchi uomini politici che lo statista di Rignano aveva promesso di seppellire da tempo. A rimettere in piedi l’Italia, spaccata irresponsabilmente in due, esposta alla speculazione internazionale, isolata in Europa ed estenuata da una gestione dissipatoria della finanza pubblica, comunque vada il referendum, sarà necessario qualcuno dotato di maggiore serietà e, temiamo, una nuova, l’ennesima, stagione di “sacrifici”.
Emilio Russo (L’Intraprendente)
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