Natale di protesta e solidarietà nella fabbrica occupata a Sesto San Giovanni

Lombardia

Milano 25 Dicembre – Il menù del cenone e del pranzo non sono ancora definiti. Succede quando la tavola viene imbandita con ciò che ciascuno porta da casa. Ma di sicuro ci sarà festa, nella sala ricavata (e riscaldata) dentro uno dei capannoni produttivi della Alstom-General Electric di Sesto San Giovanni. Quest’anno trascorreranno qui dentro Natale e Capodanno, presidiando la fabbrica, la loro unica risorsa per sperare di riconquistare un futuro. La loro frase amuleto, quella che ogni volta ispira risate ostentate e speranze silenziose come certe preghiere è: «Non succede, ma se succede…».

Non è un mondo a parte, lontano da tutto. Siamo a poche centinaia di metri dalla fermata della metropolitana «Sesto Marelli». Basta percorrere poche centinaia di metri lungo viale Italia e poi, proprio dove una targa del Comune segnala un luogo storico della Sesto operaia, c’è il cancello della ex Alstom, la fabbrica diventata General Electric nel 2015 e nel giro di pochi mesi paralizzata dalla dichiarazione di oltre un centinaio di esuberi da parte della multinazionale. Da settembre scorso, infatti, dentro lo stabilimento non si producono più generatori, gli enormi macchinari sono fermi, i pezzi semilavorati giacciono nelle postazioni e anche gli stipendi hanno smesso di arrivare. Ma i turni ci sono ancora, tutti e tre: mattino, pomeriggio e notte, otto ore ciascuno per coprirne 24 esattamente come se si lavorasse a ciclo continuo. Solo che a stabilirli, ora, non sono i capireparto ma gli stessi lavoratori. Una sessantina, disciplinati, organizzatissimi e motivati. «Perché la cosa più assurda è che questa fabbrica possa essere chiusa come se niente fosse, come se non si trattasse di una clamorosa e immotivata perdita di patrimonio industriale, tecnologico e di conoscenza», spiega tutto d’un fiato Stefano Sfregola, operaio e delegato sindacale della Fiom Cgil. Anche per questo gli operai tecnicamente licenziati continuano da tre mesi a rispettare i turni proprio come quando lavoravano: per impedire che la multinazionale intervenga per smontare gli impianti e trasferirli altrove. «A noi risulta che siano già stati destinati a stabilimenti in Romania e Polonia — dice Pasquale Archinard — ma noi vogliamo che restino qui e che qualche imprenditore rilevi questa fabbrica, che è in grado di esprimere tecnologie di altissimo livello».

E allora eccoli qui, radunati in un locale ricavato da una porzione di capannone, dove sono organizzati con una grande tavola, sedie, divani, una dispensa sempre piena di scorte, qualche fuoco, un paio di microonde, frigorifero e anche una risottiera della quale parlano un gran bene. Cucinano qui, ad ogni turno. E l’integrazione è un fatto compiuto, qui dentro: per gli italiani è del tutto normale «fare menù senza carni che non vanno bene per i musulmani» e per gli stranieri è istintivo ribadire che «questa fabbrica è patrimonio italiano». Mentre Hicham Naji, brianzolo di Casablanca, serve té alla menta con tutti i crismi della tradizione maghrebina. Mario Ferrone spiega nel suo inconfondibile accento campano cosa significhi prepararsi al Natale in fabbrica: «A parte il piccolo dettaglio che non prendiamo lo stipendio da due mesi, mi pesa non poter raggiungere la mia famiglia giù al paese, che è appena nata pure una nipotina che ancora non ho potuto conoscere». Ma subito dopo aggiunge, indicando i colleghi attorno al tavolo: «Però è giusto stare qui, è questa adesso è la mia famiglia».

Giampiero Rossi (Corriere)

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