La morte del Natale

Attualità

Milano 28 Dicembre – Due corpi sono arrivati in Italia dalla Germania, uno già cadavere, l’altro divenutolo dopo il passaggio della frontiera. I riti, i segnali, i simboli, le luminarie, le parole e gli slogan delle feste natalizie hanno avviluppato  nelle proprie ali i due. Il primo, morto proprio in un mercatino di Natale, nelle pause vacanziere e spensierate tipiche del periodo. Il secondo, miccia accesa dal periodo, festa sacrale per i nemici contro la quale si è fatto terrore simbolico.  Ucciso in uno scontro a fuoco nella vigilia di Natale, in difesa dei valori della Natività che proclama di porgere l’altra guancia alle offese. Poi l’enfasi consueta del racconto terroristico che divarica allo zenit ed al nadir i coinvolti, le vittime ed i carnefici, santificando i primi e dannando i secondi. La vittima, la  trentenne abruzzese, che si erge per un mero dato anagrafico nazionale  sull’altra decina di morti del mercatino berlinese di Natale, travolto da un camion polacco, dirottato come arma omicida dal carnefice, un tunisino. Ed appunto il dannato, il tunisino Anis Amri, un quasi italiano che nel nostro paese ha trascorso tutta la sua vita adulta, che forse era già a bordo  sul mezzo pesante targato Danzica che trasportava macchinari di pulizia in partenza da Cisinello Balsamo per la Germania e dalla quale è tornato a Sesto San Giovanni per il conflitto a fuoco finale letale. A 18 anni, Anis approda dalla Tunisia della rivoluzione del pane su un barcone a Lampedusa, ed entra nei gironi dell’integrazione all’italiana: prima la faux carcerazione dei centri d’accoglienza di Belpasso, vicino a Catania, poi la prigionia per condanna di rivolta, lesioni ed incedio nelle carceri di Catania, Enna, Sciacca, Agrigento, Palermo fino al foglio di via del 2015. Nel luglio è in Germania, indagato mentre cerca di procurarsi armi in Francia, no a settembre pur ritendendolo vicino ad Ahmad Abdelazziz, detto Abu Walaa, un salafita iracheno, considerato portavoce dell’Isis  in Germania, lasciato in pace; a febbraio 2016 spaccia cocaina a Berlino; ad aprile chiede asilo politico invece a giugno si guadagna una seconda espulsione , inutile come la prima, perché senza documenti validi la Tunisia non se lo riprende; progetta di partire per la Siria; e intanto cerca di arruolare via messaggistica social il nipote 18enne Fedi e amici dai siti natali, tra Fouchana, vicino Tunisi, e Oueslatia. Fino al delitto di Berlino che dà il senso ad una vita di esaltazione ed odio estremista. Dalla capitale tedesca Anis non ha problemi a transitare sulla linea ferroviaria Berlino-Lione-Chambery -Torino-Milano fino al bus navetta per Sesto San Giovanni. Probabilmente il controllo di due poliziotti e lo scontro finale sono dipesi dall’ora molto tarda della notte nella quale il tunisino vagava attorno alla stazione. Perché sembra evidente che durante la giornata sia ben difficile identificare nei tanti piccoli  criminali e vagabondi, dei potenziali terroristi. Gli incartamenti indagatori crescono di spessore, gli immigrati potenzialmente pericolosi si fanno milioni ma decrescono i periodi di incarcerazione a causa delle carceri sovraffollate. Ora di fronte ai due corpi si ripete il copione già scritto. Si dice che polizie, servizi, agenzie, database, intelligence siano frammentate in ciascun paese immaginarsi a livello europeo. Che c’è disabitudine a controllare i mezzi di trasporto e le frontiere come dimostrano le migliaia e migliaia di km in tre paesi che un terrorista è in grado di percorrere all’indomani di una strage nota a tutti. Che tutti i sospettati degli attacchi di Parigi, Bruxelles, Berlino fossero già segnalati, indagati, spesso espulsi, incarcerati. Che il lento meccanismo processuale sia inutile spesso di fronte  all’incalzare dei piani terroristici. Che il carcere e lo spaccio di droga sia un tratto comune degli Anis come dei Khalid e Ibrahim el Bakraoui, attentatori a Bruxelles del marzo 2016,  o dei Ibrahim e Salah Abdeslam, attentatori a Parigi del novembre 2015. E che la repressione non faccia altro che acuire la radicalizzazione violenta. E si mormora anche che tutta l’attenzione ai legami tra terrorismo e guerra siriana sia gonfiata, utile all’attenzione massmediatica per quel conflitto più che per la prevenzione. Eppure l’enorme spesa in sicurezza spesso inutile, il pullulare di carceri che non hanno questo nome, il moltiplicarsi di una folla piccolo delinquenziale  non appaiono fenomeni bloccabili. Altre soluzioni, dallo stop all’immigrazione all’esilio in località isolane o in aree no man’s land per chi non abbia documenti fanno inorridire e vengono rifiutate a prescindere. Quei due corpi tristemente celebrati nei funerali o nei segni di gesso per terra hanno comunque distrutto il Natale 2016, incupendo gli animi già tristi.

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Giuseppe Mele

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