Un viaggio dentro via Gola: parlano i residenti

Milano

Milano 11 Febbraio – Raccontare via Gola e le sue contraddizioni, il vissuto che vuole giustificare l’abusivismo, il disagio di un francobollo di territorio dimenticato, non è facile. E forse lasciare che i residenti parlino in libertà portando allo scoperto difficoltà, emergenze e criticità annose è il modo migliore per dare voce e un senso al disagio diffuso. Così ha fatto  Marta Santamato Cosentino in un significativo reportage su The Post Internazionale Ne proponiamo i contenuti “Se vuoi raccontare via Gola, devi parlare delle case”. Pino non si perde in giri di parole e punta dritto al nervo scoperto di via Gola, a Milano, dove lo spaccio e l’incuria sono più il sintomo che la malattia.

Ha 71 anni, ripara gli orologi e sa bene di cosa parla quando dice “qua ci scappa il morto” come conseguenza della “guerra tra poveri” che giornalisti, istituzioni e cittadini, nel silenzio o alitando sul collo, non fanno che alimentare.

Siamo a Milano, quadrante sud, antica terra di nebbia, zanzare e ligera – la malavita dei cortili di inizio Novecento. Via Emilio Gola è una manciata di metri incastrata tra i due Navigli e ha il potere di evocare banlieue, favelas e slum. La chiamano il “bronx di Milano”, la “dark side dei Navigli”, il “paradiso dei pusher”, il “suk anarchico”.

Da tre anni a Capodanno un falò illegale viene organizzato nella strada e la vicenda è utilizzata dalla stampa come pretesto per parlare della zona utilizzando questi appellativi.

Anche il 31 dicembre 2016 si è finito per buttare benzina non solo su quel fuoco improvvisato per la strada ma soprattutto su una polemica che non aspettava altro per esplodere e che rischia, ancora una volta, di far parlare del dito, dimenticando la luna.

La notte di San Silvestro un residente – la cui testimonianza è stata raccolta dal Corriere della Sera in un articolo dal titolo “Io, picchiato nell’inferno di via Gola” – è sceso in strada, ha chiesto di smetterla, di non dare alle fiamme gli unici quattro rami della zona e come risposta ha ricevuto un pugno, qualche spintone e l’appellativo di “fascista”. Lui stesso, però, ha poi riconosciuto che quell’episodio, per quanto sgradevole e intimidatorio, non è di certo l’essenza del problema. Ancora una volta, il dito e la luna.

Insomma, un falò – eccessivo, fuori luogo, non proprio figlio dell’Illuminismo – altrove probabilmente trascurato, in via Gola offre lo spunto perché su diversi giornali si parli di “guerriglia urbana”, “antagonisti”, “fortini controllati”, un “misto di disgusto e strafottenza”, una specie di zona franca dove sembra poter accadere di tutto.

Espressioni mediatiche, il più delle volte fantasiose, che hanno il pregio di venire in soccorso quando non si sa come diversamente etichettare realtà fluide di geografia urbana, difficili da comprendere, prima ancora che da vivere. “Hic sunt leones” avrebbero scritto gli storiografi romani sulla mappa del quartiere.

Incontro Pino nel negozio di alimentari al centro della via. Vive nel quartiere dal 1974 e, in tutto questo tempo, non è ancora venuto a capo delle lungaggini, delle pigrizie e delle inerzie dell’Azienda lombarda dell’edilizia residenziale (Aler), proprietaria dei 702 appartamenti dislocati tra via Gola, via Pichi e via Borsi.

Pino è regolare assegnatario di una casa che prima divideva con la compagna. “Non sono ancora riuscito a veder riconosciuto il mio diritto a pagare un canone di affitto più basso”, racconta Pino, che nel frattempo si è separato. “Quello che spetta a chi, come me, percepisce una pensione minima e vive da solo”.

Di situazioni come la sua in quei caseggiati ce ne sono tante, capitoli di una storia più ampia. Negli anni – come ricostruisce una testimonianza raccolta dall’antropologo Andrea Staid – si è creato un mosaico frastagliato e confuso di “anziani/e soli/e, famiglie a basso reddito, […] occupanti, assegnatari, (sub)affittuari, e parenti/affini di persone decedute”. Un quadro di difficile gestione, la cui complessità sfugge a chi, facendola più facile di quanto non sia, invoca interventi su larga scala e uno sgombero muscolare come la più immediata e razionale soluzione del problema.

Accanto agli assegnatari regolari, nel corso degli anni gli attivisti del movimento per la casa hanno occupato alcuni appartamenti, circa un terzo del volume complessivo delle proprietà Aler nel quartiere, rivendicando un’idea dell’abitare che si basa sui diritti e non sulle concessioni. Una situazione così sfaccettata che, in assenza di un reale piano di coordinamento e di autogestione, rischia di diventare schizofrenica.

Secondo Paolo, 35 anni, occupante dal 2010, è questo uno dei motivi per cui l’esperienza di via Gola assume sempre di più i connotati di un’occasione persa “tra le maglie di un sistema che ha come unica regola la totale assenza di regole”. Ha una figura slanciata. I capelli sono arruffati, le mani abituate a muoversi e lo sguardo veloce e vispo. A prima vista, non tradisce l’età e le esperienze.

Lui è arrivato a mettere sul tavolo la possibilità di andarsene, anche se solo in modo provocatorio, proponendo “l’autosgombero”. Si è trattato forse di un moto di autocoscienza da parte di chi ha capito che l’abitare, e il diritto a farlo, sono una faccenda seria, non un afflato rivoluzionario stagionale. “La presenza di rivendicazioni di carattere politico”, spiega Paolo, “ha sempre rappresentato un argine al racket delle occupazioni per cui, per qualche migliaio di euro, ci si passa di mano in mano un appartamento, come se fosse proprio”.

In assenza di un efficiente piano di assegnazioni da parte dell’ente proprietario e in mancanza di una rete di controllo radicata da parte degli occupanti, prevale la logica del più forte e del tornaconto personale, con buona pace di graduatorie, liste d’attesa e reali esigenze. In sostanza lo stesso occupante dispone, in cambio di denaro, di un bene che lui rivendicava come scevro dalle logiche della proprietà privata.

L’esperimento in corso nei cortili di via Gola avrebbe potuto essere la sublimazione di un abitare diverso, a più velocità. Aveva le carte per diventare la realtà delle case senza porta e invece sta diventando, giorno dopo giorno, quella delle case chiuse da lastre di metallo.

“Al salto generazionale degli ultimi anni non è seguita una pari presa di coscienza da parte dei ragazzi più giovani”, spiega Giovanni*, che ha poco meno di 40 anni, un piglio giovanile e un sorriso aperto. Quattordici anni fa ha occupato, e completamente risistemato, l’appartamento in cui vive. Oggi ritiene che l’unica soluzione sia una sanatoria delle case. “Io un affitto ora sarei pronto a pagarlo”.

Peccato che l’Aler, che oltre ai deficit burocratici si porta dietro anche la zavorra di un debito consistente, da un lato pretenda l’indennità di occupazione, dall’altro attui una politica di non assegnazione degli alloggi. Il bastone e la carota: non sembra volere sanare le situazioni pregresse e non intende, una volta deceduti i precedenti conduttori e a fronte di graduatorie bloccate, riassegnare le case. Anzi, rompendo sanitari, allacci e grondaie, si è fatto in modo di assicurarsi che fossero dichiarate del tutto inagibili. Per poi essere vendute, chissà a quanto.

Sempre più case rimangono senza gente e sempre più gente senza case. Non a caso questo tipo di politiche vanno a braccetto con progetti edilizi “di bonifica” di un quartiere dove, oramai, è il prezzo del mattone il regista, neanche troppo occulto, di quanto avvenuto negli ultimi anni. Magolfa 2000 per dirne uno: una via boutique con case di lusso a prezzi proibitivi.

“Qua occupi oppure i prezzi delle case sono inaccessibili”, dice Carmine. In via Gola lui non ci ha mai abitato ma la conosce bene perché dal 1995, per 12 anni, è stato il gestore del Totem, un pub a ridosso del Naviglio Pavese. “Sono almeno vent’anni che la situazione è un casino ma almeno all’epoca via Gola era piena di vita”.

Erano gli anni dell’Orso, l’officina della resistenza sociale, attorno cui gravitava anche Dax, ucciso per mano fascista la notte del 16 marzo 2003. Erano gli anni del Brasil Samba che ora ha lasciato il posto a un locale di lap dance. Erano gli anni del Nidaba che, ancora, oggi propone musica dal vivo.

Via Gola, “zona rossa” di Milano

“Via Gola dovrebbe diventare la zona rossa di Milano, come ce ne sono ad Amsterdam e ad Amburgo”, spiega Carmine. Più realisticamente, crede che la soluzione per riprendere il controllo della strada sia la creazione di un comitato di abitanti, commercianti e istituzioni. Sono in diversi a pensarla così e, in questo senso, qualcosa negli ultimi tempi ha iniziato a muoversi in maniera più o meno informale.

“Sono stufo di entrare e uscire di casa e avere centomila occhi puntati addosso”, esordisce Andrea, 48 anni. Lavora nel campo assicurativo e gli occhi di cui parla sono quelli delle vedette che stazionano all’angolo della strada.

Che l’offerta di droga su strada sia un dato di fatto non lo confermano solo le cronache locali – farcite di retate e arresti in diretta – ma soprattutto i residenti che, come Andrea, negli ultimi anni hanno protestato più e più volte in merito lamentando anche la latitanza delle forze dell’ordine. Queste sembrano in realtà parecchio attive nella zona.

Il 6 gennaio 2017, per esempio, hanno effettuato un blitz durato sei ore in cui sono state controllate un centinaio di persone. Con ogni probabilità – come ha scritto il Corriere della Sera – l’operazione è stata “un’anticipazione della strategia che entrerà a regime appena si insedierà il nuovo prefetto: lotta contro gli spacciatori e una massiccia operazione di bonifica con sgomberi nei caseggiati dell’Aler”. Per fugare ogni dubbio, qualora ce ne fossero, l’assessore lombardo alla casa Fabrizio Sala ha inoltre ribadito che il 2017 sarà “l’anno degli sgomberi”.

Andrea fa parte di un gruppo di residenti che da alcuni mesi organizza delle iniziative per riprendersi una strada che, più che telecamere ed esercito, sembra avere bisogno di persone che la animino. A metà dicembre del 2016 è stata organizzata una festa itinerante nel quartiere e nuove iniziative sono in programma per i prossimi mesi.

A una delle ultime riunioni ha partecipato anche Alina che ha 23 anni, i capelli verdi e studia pittura e arti visive alla Naba, la nuova Accademia di belle arti di Milano, proprio alle spalle di Via Gola. Insieme ad Annalisa, sta cercando di portare per le strade quello che sperimenta in laboratorio. Funzione sociale dell’arte, la chiamerebbe qualcuno. Lei preferisce parlare di “ventata di aria fresca”.

In queste settimane, capitava di vederla camminare per via Gola. Frugava tra i resti dei traslochi, le tavole di legno e i materassi spesso accatastati negli angoli immaginando cosa potrebbero diventare, in una palingenesi che riguarda qualcosa di più prezioso del destino della vecchia anta di un armadio.

Via Gola, prima di essere un’occasione mancata, rappresenta un’anomalia. È una cesura, l’ultimo scampolo di un quartiere, il Ticinese, che ha perso la sua identità.

Se si allarga lo sguardo, il destino sembra segnato. I Navigli, un tempo di Alda Merini, sono la zona in cui adesso paghi migliaia di euro al metro quadro un bilocale di ringhiera, dove fino a qualche anno fa per andare al bagno dovevi uscire sul ballatoio.

Via Gola è un francobollo da collezione in un territorio che, se prima aveva la più alta concentrazione di sedi politiche della sinistra radicale, ora è un’anonima infilata di locali, pub, birrerie, struscio da happy hour, barbe di hipsters e trattorie che sono rustiche fino a quando non si tratta di pagare.

“Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”, diceva il regista Mathieu Kassovitz nel suo film L’odio. Parafrasandolo, il rischio e la reale posta in gioco a via Gola non sono il precipitare della situazione ma sono le prospettive future e la concreta possibilità che questo quartiere continui ad esistere così come lo vediamo da anni.

La lacuna nell’offerta di soluzioni politiche e di progetti realmente inclusivi, unita ad una gestione improntata all’ordine pubblico finirà inevitabilmente per determinare, più prima che poi, un piano di riqualificazione a spese degli abitanti e di un vissuto che, forse, invece meriterebbe uno sforzo collettivo.

E, se davvero non funziona così solo nei film, l’obiettivo, per quanto riguarda l’atterraggio, dovrebbe essere quello di non arrivarci di faccia.

*Paolo e Giovanni sono nomi di fantasia dal momento che queste persone hanno accettato di parlare con TPI in condizione di anonimato.

Milano Post

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