Tangenti rosse e la storia di quella valigetta…consegnata a chi? Presto la verità

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Milano 16 Febbraio – Volete conoscere l’ultima novità sulle tangenti rosse? Aspettate la prossima primavera. Dicono che la nuova serie televisiva 1993, che allora andrà in onda su Sky, finalmente svelerà uno dei più grandi misteri del capitolo sinistrorso di Mani pulite. E cioè l’identità di chi, nel dicembre 1989, intascò il famoso miliardo di lire in contanti che Raul Gardini, imprenditore ravennate, portò in una valigetta a Botteghe oscure, mitica sede romana del Pci-Pds. Volete sapere come finirà?

 

Se fosse vero il nome che si sussurra, Massimo D’Alema potrà agevolmente chiedere danni per 1 miliardo di euro, visto che nell’aprile 1994 una sentenza (di primo grado, ma poi il reato è andato prescritto e il processo è finito) ha stabilito che effettivamente Gardini aveva finanziato illecitamente quel che restava del disciolto Pci, per ringraziarlo di avere agevolato in Parlamento un regalo fiscale da 800 miliardi all’Enimont, la società nata dalla fusione tra la sua Montedison e la chimica dell’Eni.

 

Quella sentenza, però, disse anche che il destinatario era impossibile da individuare. Perché a quel punto, purtroppo, Gardini non poteva più parlare, visto che era morto suicida nel luglio 1993. E c’erano testimonianze processuali molto precise sul miliardo, ma troppo vaghe sul destinatario finale: fu detto che i soldi erano stati portati in una valigetta «al secondo o al quarto piano» di Botteghe Oscure; e che Gardini «aveva contatti diretti con il segretario del partito, Achille Occhetto, e con D’Alema». Stop.

 

Così la sentenza, alla fine, decise che «il destinatario non era semplicemente una persona, bensì quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema (fiscale, ndr) di Gardini». Un garantismo inusitato, visto che Bettino Craxi, con gli stessi elementi per i soldi destinati al Psi, fu condannato. Craxi «non poteva non sapere». I comunisti, invece, sì.

 

Sono davvero tanti, e grandi, i misteri rimasti appesi al capitolo delle tangenti rosse, emerse 25 anni fa con il crollo della prima Repubblica: servirebbe un’enciclopedia, per elencarli. Una cosa è sicuramente vera, e cioè che le tangenti del Pci-Pds furono più difficili da colpire, per magistrati e inquirenti. Il sistema di finanziamento occulto del Pci era identico a quello degli altri partiti, ma avveniva in modo più furbo. Perché una cosa è ricevere una mazzetta, e con quella pagare i funzionari di partito; ma cosa ben diversa è incassare ricche e lecite sponsorizzazioni per le feste dell’Unità , oppure ottenere «in prestito» il lavoro di migliaia di dipendenti e funzionari, i cui stipendi vengono pagati dalle cooperative rosse.

 

C’è un’altra verità: anche i magistrati (e non erano tanti) che avevano voglia d’indagare a fondo sulle tangenti del Pci-Pds si trovavano di fronte indagati che non collaboravano. Non parlavano, nemmeno se arrestati. Mai. Tipico rappresentante di tanta durezza fu il torinese Primo Greganti , il granitico «Signor G»: il funzionario del Pci e poi del Pds, che fu arrestato a Milano nel marzo 1993, un anno dopo lo scoppio di Tangentopoli, e condannato definitivamente a tre anni di reclusione per corruzione nel marzo 2003.

 

Negli anni Ottanta e Novanta Greganti aveva lasciato le impronte su molti affari, pubblici e privati, sempre agendo in nome e per conto del partito. Aveva intascato, per esempio, tangenti per 1,2 miliardi di lire destinate al Pci-Pds dal gruppo Ferruzzi in cambio degli appalti Enel. Ma il Signor G contrastò quell’accusa: restò in cella a San Vittore per cinque o sei mesi, e difese il Partito sostenendo di avere millantato in suo nome. I soldi, Greganti, li aveva presi per sé.

 

Fu un punto cruciale dell’inchiesta, che a quel punto rischiava di abbattersi come un treno sul tesoriere del Pci-Pds, Marcello Stefanini, presunto destinatario della somma. La storia sarebbe cambiata. Ne era più che consapevole il segretario Achille Occhetto, il quale dichiarò enfaticamente che se gli fosse arrivato un avviso di garanzia sarebbe stato «un colpo di Stato», e che «i compagni sarebbero scesi nelle piazze».

 

Su Greganti indagava il sostituto procuratore milanese Tiziana Parenti, poi divenuta parlamentare di Forza Italia. Ma il capo del pool Mani pulite, il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio (che nel 2006 sarebbe stato eletto deputato per i Democratici di sinistra, eredi del Pci-Pds), scovò la prova che scagionò dall’accusa di finanziamento illecito il Signor G e soprattutto Stefanini. D’Ambrosio condusse un’indagine parallela e «con un colpo di fortuna» trovò un preliminare d’acquisto per un immobile in via Tirso, a Roma.

 

In quella scrittura privata, siglata nel giugno 1991, Greganti s’impegnava a versare al venditore più di un miliardo di lire. Il documento, insomma, «assolveva» Stefanini perché forniva una plausibile spiegazione sulla destinazione dei soldi: non erano finiti nelle casse del Pci-Pds, ma nella casa di Greganti. Inutilmente Tiziana Parenti cercò di contrastare con la logica la verità salvifica di D’Ambrosio: perché mai il Signor G, prima che in cella gli fosse stata mostrata la copia di quel contratto, non aveva mai accennato alla carta che invece lo avrebbe così facilmente scagionato dall’accusa di finanziamento illecito e gli avrebbe evitato mesi e mesi di carcere? Non servì a nulla.

Greganti e Stefanini uscirono di scena e il Pci-Pds si salvò. Eppure c’era un terzo elemento, se possibile ancora più strano e anomalo. Quasi tutti, in questo strano Paese, lo hanno sempre ignorato. Nel 1993 Greganti si era difeso accusandosi di avere allegramente fregato un miliardo e 200 milioni, soldi di una corruzione che aveva incassato per sé, mentre chi li versava era sicuro fossero destinati al Pci – Pds. Ma allora come mai, almeno per altri otto anni, è rimasto ufficialmente in affari con il Partito e con i suoi eredi politici? È stato così fino al giugno 2001, quando è andata in fallimento la Eipu, una società che raccoglieva pubblicità per le feste dell’Unità . Greganti ne era azionista, e la Eipu era controllata dalla Sevar, la società editoriale dei Democratici di sinistra, che ne controllava direttamente l’80 per cento.

L’ultima stranezza è che Stefanini venne interrogato nel settembre 1993 dai magistrati del pool Mani pulite, a Milano, e dichiarò loro di aver «interrotto i rapporti con la Eipu di Greganti» già alla fine del 1989. E fu incredibilmente creduto. Greganti, va detto, fu poi celebrato come un eroe in vari congressi e manifestazioni pubbliche dei Ds. Alla fine, serenamente, aveva ottenuto anche la tessera del Partito democratico. Ormai settantenne, il Signor G è infine riemerso giudiziariamente il 7 maggio 2014, quando è stato riarrestato per le corruttele su certi lavori di Expo 2015, a Milano.

 

Secondo gli inquirenti, il suo ruolo era «coprire a sinistra » la distribuzione degli appalti, coinvolgendo le grandi cooperative rosse. Greganti è stato in cella fino all’8 agosto, ovviamente tacendo. Poi, il 26 novembre 2014, ha patteggiato 3 anni di reclusione ed è nuovamente uscito di scena, dignitoso e granitico come sempre. Proprio come nel 1993, tutti i suoi vecchi compagni, e cioè gli esponenti del disciolto Pci che nel frattempo sono trasmigrati nel Pd, hanno fatto finta di non sapere chi fosse o di non vederlo da decenni.

 

D’Alema lo ha velenosamente ricordato come il vecchio millantatore di Tangentopoli: «Già 20 anni fa usava tangenti chieste in nome del Pci-Pds per comprarsi la casa». Povero Greganti… Cinque giorni dopo il suo arresto, la sezione del Pd di San Donato Torinese gli aveva perfino sospeso la tessera, e il segretario della «cellula» si era detto certo che avesse fatto «tutto per sé e non per il partito». Chissà se gliel’hanno mai restituita.

Maurizio Tortorella (La Verità)

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