Milano 27 Febbraio – Nacque nella Bassa parmense e della Bassa fu figlio e interprete fedele e devoto. Una sintesi per raccontare Giovannino Guareschi e una terra dove la nebbia ha l’anima leggera del mistero, la magia di un orizzonte che si scioglie con grazia nelle acque del Po. E passeggia sfiorando le case, le strade, le chiese, sempre uguale a se stessa eppure così diversa nelle ore che passano lente di un giorno uguale all’altro, eppure così diverso nella fatica di chi lavora. E accarezza i sogni più segreti, compagna e complice di tante speranze. Gente sanguigna e fiera, quella della Bassa. E generosa, schietta, operosa. Con l’ironia nel sorriso aperto e cordiale, con la genialità del fare. Gente contadina che ha saputo plasmare la terra con astuzia e perseveranza, rivoluzionando il modo di coltivarla, sfruttando l’innata inventiva e la capacità di sperimentare.
Parlare dell’uomo Giovannino Guareschi e della sua Bassa attraverso i ricordi del figlio Alberto, può diventare l’emozione di una presenza mai dimenticata e il motivo per trovare la ragione della empatia popolare che ispirano i suoi personaggi. Davanti ad un caminetto acceso, con la testimonianza dei suoi libri, nel Museo a lui dedicato, le parole seguono istintivamente un tracciato di profonda e calda umanità, nell’amore di un figlio che sa evocare senza retorica, le “piccole cose” quotidiane. “Era come i suoi personaggi, semplice, spontaneo, arguto. Sapeva prendersi in giro, perché l’autoironia era la sua forza anche nella vita. Don Camillo e Peppone sono le due parti del suo cuore e se ha scritto “Chi li ha creati è la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto” è perché la gente della Bassa è altrettanto schietta, sincera, ricca di umanità. E forse quei personaggi non sarebbero così se non fossero figli della Bassa. Ma amava stare solo ed era malinconico, a volte, con il pudore dei propri sentimenti. Non mi ha mai dato un bacio, perché non era necessario esternare l’affetto. Mia sorella glieli strappava, i baci. Quasi che si vergognasse… E d’altronde in famiglia il rispetto e il pudore erano una consuetudine. Ma l’ironia e una certa ruvidezza non riuscivano a nascondere la tenerezza. Amava anche la compagnia, ma una compagnia giusta, in sintonia..e allora diventava simpatico, con la battuta pronta, ma mai volgare”.
La scoperta di Milano, il suo primo romanzo.
Amava Milano. Diceva “La mia macchina è targata Parma, ma il mio cuore è targato Milano. Non era ambizioso e mia madre non l’ha mai costretto a fare scelte che non desiderasse. Non ha mai chiesto di andare alla Scala o di frequentare salotti culturali. Una donna che ha saputo accompagnarlo e condividere. Una famiglia unita, la mia. Così descrisse con un velo d’ironia la scoperta del Duomo “Ad un tratto ti trovi al cospetto del Duomo e ti stupisci che sia senza il regolamentare panettone davanti come nei cartelli pubblicitari” Ed era grato a Milano per le tante opportunità.
Ha scritto “La poesia bisogna sentirla, non capirla”. Anche l’anima dei suoi romanzi bisogna sentirla e non spiegarla?
Sì, bisogna ascoltare l’umanità nei romanzi di mio padre, perché l’umanità è il sentimento che li rende universali, al di là del tempo e dello spazio. Perché sono romanzi onesti e c’è sempre la volontà di un punto d’incontro per la soluzione dei problemi. Don Camillo opera per il suo gregge e Peppone per la sua gente. Ma sono fondamentalmente dei galantuomini che sanno trovare un accordo. Ed è questa la forza del messaggio che papà ha voluto dare. Diceva “ Sono stati tradotti in tutte le lingue, ma non in italiano. E’ per questo che la cultura italiana li ignora”, usando il paradosso, anziché l’invettiva. Ma l’amarezza c’era.
“Trinariciuti. Questo sono i comunisti: dalla terza narice esce la materia cerebrale ed entrano le direttive del partito. Quella vignetta, con il compagno a tre narici, fece infuriare anche Togliatti; di me disse che ero “tre volte idiota moltiplicato per tre”. Non me la presi molto, anzi scrissi un articolo su “Candido” per ringraziarlo della bella definizione che prendevo come un gradito riconoscimento per il lavoro svolto. Avevo colpito nel segno”. (Guareschi) I suoi rapporti con i comunisti.
Occorre andare nel contesto di quel tempo. Papà aveva capito che i comunisti potevano far paura e che se temi una persona occorre usare l’arma del ridicolo e allora farà meno paura. I rapporti con i comunisti sono sempre stati conflittuali, perché diceva “ non pensano con la propria testa” Ma aveva l’onestà intellettuale di rispettare le persone perbene che anche a sinistra esistevano. Sicuramente, uomo di fede, era fortemente contrario al comunismo e lo diceva, lo scriveva, lo manifestava con vignette incisive. L’umorismo, l’ironia, io sberleffo dicevano la sua verità e professavano quella libertà che non può essere condizionata. Ma non bisogna confondere la persona comunista con l’ideologia. Giovanni Faraboli era un capo dei socialisti, qui, nella Bassa ed era un galantuomo e mio padre lo stimava. Quando morì, scrisse “Quella chiara, onesta faccia” e lì salta fuori il cuore di mio padre.
Ha scritto “La verità non si insegna; bisogna scoprirla, conquistarla. Pensare, farsi una coscienza. Non cercare uno che pensi per voi, che vi insegni come dovete essere liberi….Strapparsi dalla massa, dal pensiero collettivo, come una pietra dall’acciottolato, ritrovare in se stessi l’individuo, la coscienza personale. Impostare il problema morale.” Verità che fu coerenza, dignità…
Non era il genitore che diceva “devi fare” Era un genitore che metteva in pratica le sue idee, che non faceva un passo indietro, che non conosceva il compromesso, sempre coerente, con la dignità dell’onestà intellettuale. Era un esempio e noi ci adattavamo al suo modello perché ci piaceva. La ricerca della verità che spinge verso il soprannaturale, verso Dio. Mio padre era un uomo di grande fede religiosa.
Così ricordava la prigionia del lager: “A noi è concesso soltanto sognare. Sognare è la necessità più urgente perché la nostra vita è al di là del reticolato, e oltre il reticolato ci può portare solamente il sogno. Bisogna sognare: aggrapparsi alla realtà coi nostri sogni, per non dimenticarci d’esser vivi. Bisogna sognare: e, nel sogno, ritroveremo valori che avevamo dimenticato, scopriremo valori ignorati, ravviseremo gli errori del nostro passato e la fisionomia del nostro avvenire.” Che cosa ricordava del lager, dell’ingiustizia di quella prigionia?
Non ricordava la tristezza, non raccontava cose tristi. Ci faceva divertire narrando come avesse fregato una guardia tedesca. D’altronde io e mia sorella Carlotta eravamo bambini..Ma indubbiamente la sua profonda conoscenza dell’animo umano l’aveva aiutato a sopravvivere e a trovare espedienti di fantasia per sopportare i momenti di alienazione.
“Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo richiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, con un passato e un avvenire. “ (Diario clandestino) Una sintesi della sua vita dettata dalla coscienza e dall’impegno civile.
Un manifesto di impegno, queste righe. In un momento drammatico, con una politica che avvelenava il tempo, che divideva famiglie, amici, che contrapponeva gli uni contro gli altri, mio padre non ha mai rinunciato a manifestare la sua verità, in tutto quello che ha scritto e nelle vignette che ha disegnato.
Su Candido e nei suoi romanzi. E Candido veniva letto, di nascosto, anche dai comunisti, perché sapevano che Guareschi commentava e presentava gli avvenimenti con onestà intellettuale. Caprara, segretario di Togliatti, riconobbe il rigore morale di mio padre e confessò che lo stesso Togliatti aveva paura ad attaccare Guareschi per i tanti lettori comunisti che lo seguivano.
Baldassarre Molossi, storico direttore della Gazzetta di Parma, così raccontò il funerale il giorno dopo: «L’Italia meschina e vile, l’Italia provvisoria, come lo stesso Guareschi con amara intuizione la definì nel 1947, ci ha fornito ieri l’esatta misura del limite estremo della sua insensibilità morale e della sua pochezza spirituale.
«Giovannino Guareschi è lo scrittore italiano più letto nel mondo con traduzioni in tutte le lingue e cifre di tiratura da capogiro. Ma l’Italia ufficiale lo ha ignorato. Molti dei nostri attuali governanti devono pur qualcosa a Guareschi e alla sua strenua battaglia del 1948 se oggi siedono ancora su poltrone ministeriali, ma nessuno di essi si è mosso. Nessuno di essi si è fatto vivo (…). Anche Giovannino Guareschi ormai riposa al cimitero dei galantuomini. È un luogo poco affollato. L’abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita delle due mani.». Una vergogna! Come reagì la famiglia?
In famiglia abbiamo pensato “Per fortuna che non c’era nessuno a fare la passerella di propaganda” Le uniche condoglianze ricevute sono state quelle del senatore democristiano Spigaroli . Ma ha ragione Molossi: il cimitero dei galantuomini è un luogo poco affollato. E mio padre era soprattutto un galantuomo.
Penso “Una biciletta…. una bicicletta ci vorrebbe…” Per assaporare il respiro della “sua “libertà e sentirmi “piccola figlia” di “un mondo piccolo”, ma così grande di umanità. E magari incontralo, là dove tutto parla di lui e gli alberi del lungo viale di Roccabianca, diventano lo scenario essenziale di un teatro che è ed è stato il mondo di Giovannino Guareschi. E, sì, sono sicura…sarebbe un incontro tra “villani”, tra persone semplici…e forse riderebbe anche un po’ sotto i baffoni, per questo mio tentativo di dare un ordine consequenziale alle parole, ma capirebbe l’onestà del mio cuore.
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano