Milano 6 Marzo – Il modo in cui viene impiegata metà del Pil non può essere una «variabile indipendente». La spesa pubblica in Italia vale un po’ più di metà del prodotto interno lordo. E’ vero, una quota cospicua (circa il 4% del Pil) è assorbita dalla spesa per interessi. E’ vero, la parte del leone la fa la spesa previdenziale. Ma lo Stato resta la prima, grande impresa nazionale, che ha il monopolio di servizi di importanza non secondaria, come scuola e istruzione. E’ difficile avere tassi di crescita più alti dell’1%, se metà del Pil è impermeabile a innovazione e concorrenza.
Il governo Renzi era partito col piede giusto. La riforma della pubblica amministrazione doveva introdurre elementi di efficienza nell’organizzazione del pubblico impiego, la «buona scuola» migliorare la qualità dell’istruzione e della formazione. Sappiamo come è andata a finire. Il rinnovo del contratto degli statali ha portato con sé un aumento generalizzato del salario che, non essendo legato alla produttività o alla disponibilità, per esempio, a cambiare sede e mansione, mette soldi nelle tasche degli impiegati pubblici ma non li incentiva ad aumentare i propri sforzi. La cosiddetta «buona scuola» è stata una batteria di assunzioni, evitando anche stavolta di trasformare in politiche concrete l’astratto principio del «merito». Il «rottamatore» ha lasciato la Pa al medesimo livello d’efficienza al quale l’aveva trovata.
La cattiva performance del «pubblico» in Italia è colpa dell’austerità? Difficile ricordare esempi di spesa pubblica molto efficace, in tempi di vacche grasse.
Se è vero che negli anni della crisi del debito le spese sono cresciute a tassi più contenuti che in passato, e in particolar modo i salari sono rimasti fermi, dal 2013-2014 la spesa delle amministrazioni pubbliche, in particolare modo quelle centrali, è tornata ad aumentare, dello 0,7 l’anno (Corte dei Conti). Nello stesso periodo, il Pil italiano era sostanzialmente stagnante. In anni di presunta «austerità», lo Stato cresce a ritmo più sostenuto dell’economia.
Proprio la sua dimensione ci costringe ad agire sulla spesa pubblica. In un rapporto curato da Antonio Sileo per l’iCom, si stima che le start up innovative diano un «contributo al Pil nazionale per un valore massimo di quasi 1,9 miliardi di euro». 1,9 miliardi di euro sono all’incirca lo 0,11% del Pil. Di start up si parla molto, e giustamente i governi degli ultimi anni hanno perlomeno promesso di sostenere queste iniziative, giovani e che proiettano il nostro Paese nel nuovo millennio. Ammettiamo che il governo riesca, con alcune scelte azzeccate, a renderle molto più produttive. Diciamo del 20% in più: la produttività del Paese aumenterebbe dello 0,02%.
La sanità pubblica vale l’8,5%. Con un aumento della produttività del 10%, per esempio grazie a un po’ di concorrenza nella gestione del servizio, l’impatto sulla produttività del Paese sarebbe quaranta volte tanto.
E’ solo un esempio. Se volessimo avere un dibattito più serio, dovremmo confrontarci su due alternative. Prima opzione: lo Stato impara a far meglio il proprio mestiere, a motivare i suoi impiegati, a offrire servizi migliori e più innovativi. Seconda opzione: lo Stato sceglie di far di meno, focalizzandosi meglio su compiti che nessun altro può svolgere (garantire un buon funzionamento della giustizia e una decorosa tutela dell’ordine pubblico in tutto il Paese), e contestualmente apre alla concorrenza una serie di settori che oggi le sono preclusi.
Possiamo tentare di migliorare la resa di quel 51% del Pil o liberare risorse a vantaggio di chi potrà provare a farne miglior uso. Oppure pensare che la spesa pubblica così è e così deve restare. Nel quale caso, però, smettiamo di lamentarci della bassa crescita. Per pudore.
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