Milano 12 Marzo – Una domanda paradigma della politica che coinvolge la sinistra e tutti coloro che amano la trasparenza e la coerenza. Una domanda che si pone il prof. Tomaso Montanari sull’Huffington Post con un’analisi obiettiva e lucida sul comportamento personale e politico di Renzi. Di seguito l’articolo “Tornare a casa. Per ripartire insieme”. Il motto renziano del Lingotto suona come una presa in giro. Renzi aveva detto mille volte che se avesse vinto il No al referendum costituzionale sarebbe “tornato a casa”. Ora scopriamo che era uno slogan a doppiofondo, che c’era una riserva mentale. Come quelle dei gesuiti del Seicento, che facevano andare in bestia Pascal perché dicevano mezza frase a voce alta, e l’altra mezza (che contraddiceva la prima) sottovoce. E colpisce la strumentalizzazione di un plurale che Renzi non aveva mai usato. Era lui a dover tornare a casa: e ora invece è tempo di ripartire insieme. Il problema è: si può credere a Matteo Renzi?
La sconfitta del Sì va infatti letta anche sul piano del discorso politico, e della psicologia di massa. È stato rigettato il modello plebiscitario del capo che si rapporta direttamente con la folla. Non perché esistano radicati anticorpi: che purtroppo, al contrario, sono assai scarsi. Quella svolta è stata rifiutata perché è apparso evidente – ad un livello direi quasi pre-razionale – che il capo mentiva: è questo che la ‘gente’ ha ‘sentito’.
Una menzogna che è stata platealmente confermata ex post proprio dal rifiuto di Matteo Renzi di ritirarsi dalla politica, al contrario di ciò aveva più volte solennemente promesso. Quando, al Sanremo del 2017, il presentatore fiorentino Carlo Conti ha ironizzato sul proprio ritiro dalla conduzione futura del festival dicendo: “Quando un fiorentino dice che si ritira…”, egli ha cavalcato un’evidenza inoppugnabile: nell’immaginario di molti italiani Renzi è, indelebilmente, un mentitore. È qua che sta la vera ragione dell’irreversibilità della sua sconfitta, ed è ancora da questo nucleo fondamentale (dire o non dire la verità) che si può delineare un altro tipo di sinistra.
In Verità e politica (1967) Hannah Arendt racconta “un aneddoto medioevale [che] illustra quanto può essere difficile mentire agli altri senza mentire a se stessi. È una storia che narra ciò che accadde una notte in una città sulla cui torre di guardia una sentinella era in servizio giorno e notte per avvertire la popolazione dell’approssimarsi del nemico. La sentinella era un uomo incline agli scherzi, e quella notte suonò l’allarme giusto per far prendere un piccolo spavento alla popolazione della città. Il suo successo fu travolgente: tutti si precipitarono alle mura, e l’ultimo ad precipitarcisi fu la sentinella stessa. Il racconto indica in quale misura la nostra apprensione della realtà dipende dalla nostra condivisione del mondo con gli altri, e quale forza di carattere è richiesta per attenersi a qualcosa, sia essa la verità o una menzogna che non è condivisa. In altre parole, più un bugiardo ha successo più è probabile che egli cadrà vittima delle sue stesse fabbricazioni”.
È ciò che, con ogni evidenza, è accaduto a Matteo Renzi: così sprofondato nel suo storytelling di un “Italia che riparte” – “passo dopo passo”, grazie a uno Sblocca Italia e attraverso una Buona Scuola – dall’aver finito col crederci lui stesso, perdendo ogni contatto con il Paese reale, e con il suo profondissimo malessere. Il vero e proprio odio di Renzi verso ogni critica indipendente e contro gli intellettuali (i “gufi”), ma anche contro i dati dell’Istat, si spiega esattamente così: chiunque minacciasse di incrinare il suo monopolio della verità era avvertito come un nemico mortale. Ora, non c’è alcun dubbio che Renzi abbia una notevole inclinazione allo storytelling (qualcuno potrebbe anche usare un termine più rude, menzogna), ma sarebbe miope, e in ultima analisi suicida, non individuare le radici profonde e condivise di questo”.
Quelle radici coincidono con la linea politica progressivamente assunta dai partiti post-comunisti: una linea di “riformismo moderato” (così, per esempio, Michele Salvati, che per primo delineò, era il 2003, il profilo del futuro Partito Democratico) che ha governato l’Italia ben più a lungo del Centrodestra berlusconiano, e che ha avuto il suo principale modello europeo nel pensiero e nel governo di Tony Blair (leader del Labour Party dal 1994 al 2007, primo ministro dal 1997). In questo periodo le condizioni del Paese sono precipitate: tra il 1990 e il 2010 in Italia l’indice di Gini (che misura la diseguaglianza) è cresciuto più che in ogni paese per cui disponiamo di dati (da 0.40 a 0.51). I poveri sono sempre più poveri (la povertà assoluta è raddoppiata negli ultimi dieci anni), i ricchi sempre più ricchi. Ma il moderatismo del Partito democratico ha continuato a ripetere There Is No Alternative: a questo stato delle cose non c’è alternativa (un motto coniato dalla “maestra” di Tony Blair, Margaret Thatcher).
La migliore analisi di questo tradimento (che non è certo solo italiano) è quella dello storico e sociologo britannico Tony Judt in Guasto è il mondo (2010), ed è un’analisi che ruota proprio intorno alla rapporto tra verità e menzogna: “Perché, negli ultimi tre decenni, è stato così facile per chi era al potere convincere i propri elettori della saggezza (e comunque della necessità) delle politiche che voleva portare avanti? Perché non c’era a disposizione nessuna alternativa coerente. Anche quando esistono differenze marcate nei programmi dei principali partiti, queste vengono presentate come versioni diverse di un unico obiettivo. È diventato un luogo comune dire che vogliamo tutti la stessa cosa e abbiamo solo modi leggermente diversi per giungere a essa. Ma è semplicemente falso. I ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi. Chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione, e protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico. … Le società sono organismi complessi, composti da interessi in conflitto fra di loro. Dire il contrario (negare le distinzioni di classe, di ricchezza, o di influenza) è solo un modo per favorire un insieme di interessi a discapito di un altro. Un tempo una simile affermazione era scontata: oggi ci incoraggiano a liquidarla come un incitamento irresponsabile all’odio di classe”.
È questa la verità che bisogna avere il coraggio di guardare in faccia. E qui non basta manipolare gli slogan.”
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