Milano 14 Marzo – “Dovendo praticare l’archeologia sentimentale, non posso che utilizzare la lingua propria del ricordo e la lingua del ricordo è il dialetto o, meglio, quell’impasto di lingua materna, che per me è, paradossalmente, l’italiano, e di lingua della terra, il siracusano…”. Su ilLibraio.it la riflessione dello scrittore siciliano Arturo Belluardo, in libreria con il romanzo di formazione “Minchia di mare”
Sono andato via da Siracusa che avevo diciannove anni. E a casa mia non si parlava dialetto, che quello era riservato agli ignoranti analfabeti. Mia nonna, poi, era un’ebrea tripolina che parlava uno strano linguaggio meticcio, dove i numeri fosforescenti del telefono diventavano effervescenti, Pertini, Peppino e Tele International diventava Tele Mesc. Io il dialetto l’ho imparato per strada, in parrocchia, alla Borgata dove abitava mia nonna. E il significato di certe parole mi era totalmente ignoto: per me una bottana era una che dava baci a pagamento e quando mi davano dell’aricchione mi guardavo allo specchio cercando di capire che problema avessero le mie orecchie.
Insomma per me il dialetto è linguaggio di memoria e quando scavo alla ricerca di un ricordo o di un dolore, quello che ne sgorga, assieme alle immagini colorate e violente, è un profluvio di musica quasi indecifrabile, musica che va a pittare il ricordo, che si spalma sui muri scrostati, sul mare teso come una lastra di piombo sotto lo scirocco, sulle rughe delle persone scomparse. Esce fuori un linguaggio che si appropria delle immagini e le fagocita, le trasforma in materia vivente: e i tuguri non possono che essere catoi, e gli sguardi taliate.
Dovendo praticare l’archeologia sentimentale, non posso quindi che utilizzare la lingua propria del ricordo e la lingua del ricordo è il dialetto o, meglio, quell’impasto di lingua materna, che per me è, paradossalmente, l’italiano, e di lingua della terra, il siracusano, decrittata piano piano con la crescita e, a volte, ancora oggi, incomprensibile. Nel magma dell’evocazione narrativa, ho cercato di selezionare concrezioni laviche particolari, apponendole come intarsi in una sorta di commesso siciliano che alternasse pietre vulcaniche a pietre d’altra origine. Ho seguito un flusso emozionale, più che un progetto strategico, ho cercato di utilizzare parole che generassero immagini o brani musicali.
Ed è stato proprio l’uso del dialetto fatto da musicisti come Rosa Balistreri, Battiato, Carmen Consoli e Alessio Bondì (per citarne alcuni) che mi ha spinto a sperimentare l’uso della lingua della terra: sentendone l’armonia e la capacità di alimentare emozione, mi sono convinto a seguire la loro strada e a trascrivere un linguaggio intimo come fosse partitura.
In questo mi ha aiutato Vincenzo Consolo, forse quello de Il sorriso dell’ignoto marinaio e de Le pietre di Pantalica, il Consolo che scriveva in dialetto senza usare una parola di siciliano, sperimentando costruzioni simili alle architetture del nostro tardo-barocco settecentesco e le afonìe dei buchi nel bianco del calcare. Il Consolo, il cui cognome è quello del banchetto funebre (‘u cunzolu), dal linguaggio arcaico e profondo, di terra greca, di divinità ctonie, i Palici, di oracoli non svelati: mistero unito a potenza divinatoria.
E accanto a lui, in apparente ossimoro, il milanese Gadda, le cui concrezioni dialettali sono talmente spinte da diventare gloriose putrefazioni. Io, quando leggo, quando ascolto Carlo Emilio Gadda, godo fisicamente, rido o mi commuovo, ma sempre alle lacrime arrivo.
Ma, d’altra parte, per me non c’è contraddizione, vivo fuori dalla Sicilia ormai da trentacinque anni e dalla Sicilia non riesco a prescindere: quelli come me, in tempi d’emigrazione, venivano chiamati ‘miricani, anche se dovevano andare in Belgio o, più banalmente, a Roma e non conosco uno di noi ‘miricani che non provi questa lacerazione, questo essere collocati in una Terra di Nessuno, in città che non ci appartengono e con una terra madre che non ci riconosce. Et excrucior. (Il Libraio)
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