Occorre una banca del DNA per catturare i serial killer

Scienza e Salute

Milano 23 Marzo – “Sempre più spazio al dna e alle altre prove di laboratorio e poco alle indagini tradizionali? Lo so, è un obiezione che muovono in tanti. Sbagliando”. Luigi Carnevale, 55 anni, dirigente superiore, dal giugno 2016 direttore del Servizio di polizia scientifica, è orgoglioso dei suoi ‘poliziotti in camice bianco’, la task force di biologi, chimici, ingegneri, fisici e informatici che combattono la loro lotta quotidiana al crimine in uno dei parallelepipedi di vetro e cemento del Polo Tuscolano, quartier generale della Direzione centrale anticrimine. Fuori, il caos e il traffico di una delle vie più congestionate della capitale, dentro il silenzio e la pulizia di stanze in cui si applicano tecnologie di ultimissima generazione. “Non è vero che l’intuito dell’investigatore e i vecchi metodi contano meno – premette Carnevale -, è vero invece che, da sempre, proprio dalla scientifica arrivano input decisivi per risolvere certi casi”. Se ne parlava da anni, da novembre anche l’Italia ha la sua banca dati del dna. Sarà davvero così decisiva? “Non ci sono dubbi. Noi abbiamo cominciato a inserire i primi profili genetici estrapolati da tracce biologiche lasciate sulla scena del crimine; quando nel laboratorio centrale istituito presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria saranno stati archiviati tutti i profili genetici dei detenuti e degli arrestati per i reati più gravi – migliaia di dati identificati, per ragioni di privacy, da codici alfanumerici e abbinati alle impronte digitali memorizzate nei nostri database – sarà possibile procedere al confronto: solo in caso di match, ovvero nel caso in cui i profili combacino, si potrà risalire all’autore di un certo reato anche a grande distanza di tempo. Un esempio recentissimo? Quello di Maurizio Minghella, il serial killer delle prostitute, già condannato a oltre un secolo e ora rinviato a giudizio anche per la morte di Floreta Islami, strangolata nelle campagne di Rivoli il giorno di San Valentino di 19 anni fa”. Come siete arrivati a capire che è sua la firma anche di questo omicidio? “Fino a pochi anni fa, il dna lo ricavavamo quasi solo da consistenti tracce di sangue o di liquido seminale, oggi invece bastano, ad esempio, le micro cellule epiteliali che le nostre dita lasciano per contatto su un determinato oggetto”. “Tra i reperti del delitto Islami conservati in archivio c’era anche la sciarpa di lana usata per uccidere la giovane albanese: sul nodo di quella sciarpa, vent’anni dopo, una biologa del nostro laboratorio di genetica forense di Torino (oltre a quello di Roma, ce ne sono anche a Napoli e a Palermo, ndr) è riuscita ad isolare un profilo di dna misto, composto dal dna della vittima e da quello di un uomo. E quest’ultimo è risultato essere lo stesso ricavato dalla saliva lasciata da Minghella su un bicchiere usato in carcere”. Nessuna possibilità di errore? “Nessuna. In un passato anche recente c’è stato chi ha strumentalmente messo in dubbio l’attendibilità di certi risultati: nel caso del dna, proprio per evitare obiezioni, i nostri laboratori sono stati sottoposti ad una severissima procedura di accreditamento, l’Iso 17025 che garantisce la preparazione del personale, il rispetto di standard tecnici rigorosi e la tracciabilità di ogni fase del processo. Tra l’altro, è il caso di ricordarlo, la banca dati del dna non ci aiuterà solo a incastrare killer e terroristi: penso ai tanti casi di scomparsi e ai numerosi cadaveri che giacciono ancora identificati. Compresi quelli dei migranti che perdono la vita nei ‘viaggi della speranzà verso le nostre coste”. In effetti, quando si parla di scientifica si pensa soprattutto alla soluzione di grandi delitti o al ‘giallò di turno. Ma il vostro campo d’azione è molto più vasto. “Già. Noi lavoriamo a 360 gradi. Non tutti sanno ad esempio che i migranti, una volta sbarcati, trovano ad attenderli, oltre al personale degli uffici immigrazione, uomini e donne del nostro servizio. Le procedure di fotosegnalamento, integralmente videoregistrate, riguardano ormai quasi il 100% degli arrivi, minori esclusi, e le impronte così rilevate finiscono nella banca dati nazionale, l’Afis, Automated fingerprint identication system, e in quella europea, Eurodac, European Dactyloscopie. Anche in questo campo, i progressi fatti sono eccezionali: oggi tutti i confronti sono digitalizzati e si ottengono risultati sorprendenti anche su frammenti di impronte, persino se rilevati su cadaveri in stato di decomposizione”. E’ vero che anche bossoli e proiettili lasciano le loro ‘impronte digitalì? “In un certo senso sì. L’Ibis, l’Integrated balistic identification system, è un sistema computerizzato europeo in grado di acquisire le immagini di bossoli e proiettili, di archiviarle e di confrontarle in automatico”. “E’ dai nostri tecnici che è arrivata la conferma che la pistola impugnata da Anis Amri nello scontro a fuoco di Sesto San Giovanni era la stessa usata per uccidere l’autista del camion poi utilizzato per l’attentato al mercato di Berlino. Anche nelle analisi sui residui di polvere da sparo, il vecchio stub, si procede con tecniche sempre più sofisticate. E lo stesso vale per i cellulari: ormai l’individuazione delle celle è precisa sino al metro. A Rigopiano, nell’hotel travolto dalla slavina, siamo riusciti a localizzare uno smartphone ancora attivo e a permettere il salvataggio di uno dei superstiti. Un know how che ci aiuta anche nella ricerca dei latitanti, così come la disponibilità di termo camere, utilissime ad individuare la presenza di persone in bunker, rifugi, intercapedini”. Un altro settore di intervento è quello relativo all’ordine pubblico “A partire dal 2013, nostri videoperatori filmano tutte le fasi delle manifestazioni, dall’inizio alla fine. In molti casi siano riusciti a risalire agli autori di scontri o di danneggiamenti anche se al momento decisivo si erano travisati con una passamontagna o un casco: passando al setaccio i singoli fotogrammi, si può riconoscere il responsabile da una t-shirt, dal colore o da un certo tipo tipo di scarpe, magari da un tatuaggio. Il ‘film’ di certi eventi vale anche a smontare ricostruzioni mistificatorie della realtà: ricordate il caso del sindaco di Terni che durante una manifestazione (era l’estate di quattro anni fa, ndr) sarebbe stato raggiunto dalla manganellata di un agente? I media gli dedicarono ampio spazio, ma il nostro girato documentò in modo inequivocabile che a ferire il sindaco non era stata la polizia ma uno dei manifestanti. Con un’ombrellata”. Ogni tanto mettete la vostra competenza anche al servizio dell’arte. A che cosa state lavorando? “L’ultimo lavoro in ordine di tempo è quello sul mistero del volto del Palladio. Non esiste certezza della fisionomia del grande architetto rinascimentale e così i nostri tecnici sono impegnati ad analizzare nove ritratti, confrontando i singoli particolari del volto anche con la tecnica dell’age progression. Uno sforzo raccontato da una mostra allestita a Vicenza Stefano Barricelli (AGI)

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