Riforma P.A, nel Testo unico su pubblico impiego nessuna soluzione per i precari della ricerca: “I fondi non ci sono”

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Milano 27 Marzo – Si fa presto a dire “disposizioni per il superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni”. Così recita l’articolo 20 dello schema di decreto legislativo che modifica il Testo unico del Pubblico impiego, approvato in esame preliminare dal Consiglio dei ministri a fine febbraio. Si fa presto, se la stabilizzazione non riguarda chi lavora negli enti pubblici di ricerca. Altrimenti è tutta un’altra storia. Che parla di necessità di fondi straordinari (che non ci sono) e di un esercito di 10mila lavoratori, impiegati con contratti a tempo determinato (circa 4.200), assegni (oltre 3.300), co.co.co (2mila) e altre forme flessibili, anche da dieci, vent’anni attraverso finanziamenti intercettati un po’ qua e un po’ là. E se a parole la politica vuole investire nella ricerca, secondo i sindacati il Testo unico di attuazione alla riforma Madia potrà fare poco o nulla per migliorare la situazione. Nonostante la previsione di un piano straordinario di assunzioni per il triennio 2018-2020 pensato ad hoc per il precariato storico della pubblica amministrazione.

L’ILLEGALITÀ CHE NON SI SANA – Secondo Fabrizio Stocchi, responsabile nazionale del comparto Ricerca Flc-Cgil, il testo è inadeguato a risolvere o migliorare significativamente il problema della precarietà negli enti di ricerca. “Da un lato – spiega a ilfattoquotidiano.it – è necessario un finanziamento straordinario dopo così tanti anni di mancanza di investimenti”, dall’altro occorre riflettere sul dispositivo che “oltre ad alcune carenze di carattere generale che riguarderanno tutti i settori, non tiene conto di alcuni aspetti particolari del campo della ricerca”. Il testo è attualmente all’esame delle commissioni parlamentari di Camera e Senato e dovrà essere formalmente approvato dal Consiglio dei Ministri entro fine maggio. La speranza è che, nel frattempo, qualcosa possa cambiare. Secondo il ministro Marianna Madia la precarietà storica nel pubblico impiego è “un’illegalità di Stato”. Ebbene, secondo l’Unione sindacale di base Pubblico Impiego questa illegalità non verrà sanata dalla norma di stabilizzazione inserita nel nuovo Testo Unico “perché costretta dentro i limiti economici imposti dall’Europa e dentro i confini della procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea che comprende esclusivamente i lavoratori precari a tempo determinato, più pericolosi dal punto di vista legale”. Per questo il sindacato ha organizzato per la mattina del 30 marzo una manifestazione davanti la sede del ministero della Funzione Pubblica e, nel pomeriggio, alla sede romana del Cnr.

I LIMITI DEL TESTO – Nel comma 1 dell’articolo 20 è scritto nero su bianco che le amministrazioni “possono” assumere a tempo indeterminato i lavoratori che, alla data di entrata in vigore del decreto, abbiano maturato almeno 3 anni di servizio con contratti a tempo determinato (anche non continuativi negli ultimi 8 anni). Questi ricercatori, inoltre, devono essere in servizio con questo tipo di contratto presso l’amministrazione che li assume e che deve averli già selezionati con un concorso. “Nel 2017 – spiega Stocchi – in qualsiasi ente di ricerca è fittizia la separazione tra contratti a tempo determinato e contratti parasubordinati, che in alcuni casi addirittura sono la maggioranza (al Cnr e all’Inaf, l’istituto nazionale di ricerca metrologia per citare due esempi, nda). Si tratta di una divisione insopportabile perché parliamo di persone che svolgono lo stesso mestiere”. Inoltre non vengono prese in considerazione alcune specificità del settore: “Per un ricercatore la mobilità tra una struttura e l’altra è importante, spesso necessaria – spiega Stocchi – eppure il testo prevede la stabilizzazione solo per chi ha superato un concorso nel posto in cui sta lavorando e per chi ha maturato i tre anni in quella stessa amministrazione”.

È vero che si prevede che l’ente possa bandire, alle stesse condizioni dettate per i lavoratori a tempo determinato, e garantendo un adeguato accesso dall’esterno, procedure concorsuali con una riserva del 50% dei posti per chi è in servizio con altre forme di lavoro flessibile ma, secondo i sindacati, i benefici per questi lavoratori saranno minimi. Anche perché buona parte del personale degli enti di ricerca non ha contratti continui. “Può capitare – spiega a ilfattoquotidiano.it Claudio Argentieri, responsabile di Usb Pubblico Impiego, settore ricerca – che un fondo di finanziamento venga sospeso, o si passi da uno regionale e un altro europeo. Non sempre le amministrazioni danno continuità ai contratti e questo penalizza molti ricercatori”. Secondo i calcolo dell’Usb sono circa 3mila quelli a tempo determinato in tutti gli enti di ricerca che hanno i requisiti richiesti dall’articolo 20, mentre 4mila superano i tre anni richiesti dalla norma considerando anche co.co.co. e assegni di ricerca. “Tanto per fare un esempio – aggiunge il sindacalista – con questi paletti entrerebbero appena 133 precari al Cnr (su 1.220 aventi diritto) e 6 all’Ispra”.

LA QUESTIONE DEI FONDI – L’altro nodo riguarda le risorse finanziarie. “L’azione del governo – spiega Argentieri – mira a evitare le procedure di infrazione e i ricorsi da parte di lavoratori degli enti di ricerca, che chiedono i risarcimenti per la reiterazione dei contratti a tempo determinato e la mancanza di possibilità di assunzione”. Il pericolo, insomma, era avere una spesa superiore a quella necessaria per la stabilizzazione. Come assumere, allora, i precari che fino a oggi sono stati pagati con i fondi di ricerca? “Nei mesi scorsi per l’Istituto superiore di sanità e l’Istat sono stati approvati emendamenti ad hoc inseriti nel decreto Milleproroghe”. Nel caso dell’Istituto superiore di Sanità il fondo ordinario è stato alimentato con 6 milioni per il 2017 e circa 12 milioni a partire dal 2018. “Solo per l’Iss si rischiava di pagare 70 milioni per 300 ricorsi. L’istituto ha posto il problema e il ministro Beatrice Lorenzin ha fatto due conti”, spiega Argentieri, secondo cui il Testo unico, al contrario, non fornisce soluzioni concrete. “Anche perché – spiega Argentieri – la norma non obbliga alla stabilizzazione ma lascia tutto alla discrezionalità dell’ente, mentre i finanziamenti non sono precisati”. In pratica un ente di ricerca, in caso ci siano 100 licenziamenti, può decidere di indire 100 concorsi.

LE RICHIESTE DEI SINDACATI – Il vero limite è che il Testo unico sul pubblico impiego impone che per la stabilizzazione vengano utilizzati solo i fondi ordinari, ossia quelli previsti dalla legge di Bilancio e che arrivano dai ministeri. Ma se in Comuni, Regioni e ministeri i precari vengono direttamente pagati con i fondi ordinari, negli enti di ricerca sono almeno 1.500 quelli retribuiti attraverso finanziamenti diversi. “Se nel caso di questi specifici enti la norma prevedesse – aggiunge Argentieri – l’utilizzo di tutti i finanziamenti predisposti dai ministeri vigilanti o da altre amministrazioni dello Stato (per esempio le Regioni), circa i due terzi degli aventi diritto potrebbero essere stabilizzati. Anche parte dei Pon in mano al ministero della Ricerca potrebbe essere destinata all’assunzione del personale negli Epr”.

IL CASO DEL CNR – Quello del Cnr è un caso emblematico. “L’enfasi del titolo del testo unico sul ‘superamento del precariato’ non si riscontra nel testo”, spiega a ilfattoquotidiano.it Rosa Ruscitti, responsabile del comitato di Ente Cnr della Flc-Cgil. In proporzione ai finanziamenti arrivati per l’Iss e l’Istat, al Cnr, il Consiglio nazionale delle ricerche che è il più grande d’Italia, servirebbero circa 50 milioni per assumere tutti i precari. Invece il testo dà la possibilità di stabilizzare ‘in coerenza col piano triennale dei fabbisogni e con l’indicazione della relativa copertura finanziaria’. “Con queste diciture – spiega la sindacalista – dipende tutto dalle possibilità finanziarie di un’amministrazione”. La situazione al Cnr? Accanto ai 7mila lavoratori a tempo indeterminato ce ne sono 1.500 con contratti a termine “a cui vanno aggiunte – spiega Ruscitti – altre 3.500 unità circa (quasi 3mila pagate con assegni di ricerca, dottorati e borse di studio e altre 500 pagate per progetti non gestiti direttamente dal Cnr, ma da fondazioni e soggetti esterni”. Dinanzi a questa situazione e rispetto ad altre norme già esistenti, che superano il limite della pianta organica aprendo la strada alle assunzioni, il testo unico non va molto oltre. “Tra le modifiche da apportare – spiega – ci sarebbero l’obbligo (invece della semplice possibilità) di stabilizzare per le amministrazioni e il fatto che il requisito di anzianità possa essere raggiunto calcolando anche il lavoro flessibile ed entro il triennio 2018-2020, invece che alla data di pubblicazione del decreto. Prevista per il prossimo 24 maggio.

Luisiana Gaita  (Il Fatto Quotidiano)

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