Il paradosso: lo Stato finanzia chi chiude le fabbriche.

Attualità

Milano 15 Aprile –  Un editoriale, una lettera ai lettori de La Verità per spiegare con amarezza e incredulità un paradosso che manda all’inferno il buon senso. Proponiamo integralmente l’articolo di Maurizio Belpietro

Cari lettori, che cosa pensereste se vi dicessi che il governo finanzia con soldi pubblici le aziende italiane che licenziano e vanno all’estero ad aprire nuove fabbriche? Probabilmente mi prendereste per matto o, nel migliore dei casi , immaginereste che vi stia mettendo alla prova per capire fino a che punto siete disposti a credere alle leggende metropolitane che circolano in rete. Sono esattamente le stesse cose che ho pensato io l’altra sera, ascoltando a La 7, durante il programma condotto da Gianluigi Paragone, il racconto dei lavoratori della K flex, impresa specializzata in isolamento termico e acustico che fattura 320 milioni di euro. In studio alcuni operai hanno spiegato che la loro azienda ha percepito tramite la Simest, società controllata da Cassa depositi e prestiti, cioè dallo Stato, una quindicina di milioni di euro per internazionalizzarsi. E in effetti Kflex ha aperto nuovi impianti produttivi fuori dai confini nazionali, ma contestualmente ha deciso di licenziare 187 dei 243 dipendenti dello stabilimento  di Roncello, In provincia di Monza. Risultato: con una mano l’azienda prende milioni di soldi pubblici allo scopo di crescere all’estero e affermarsi sui mercati internazionali, con l’altra firma le lettere di licenziamento di operai e impiegati dell’impianto brianzolo. Mica male come operazione. Uno vuole delocalizzare, cioè emigrare con la sua fabbrica, perché da noi ci sono troppa burocrazia, troppe tasse e troppi fastidi, e lo Stato gli dà una mano a farlo. Anzi: lo finanzia pure. Quindici milioni equivalgono a poco meno di 80.000 euro investiti per ogni operaio licenziato. Che non vanno in tasca al lavoratore, il quale rimane a becco asciutto e non si può consolare neppure con la cassa integrazione perchè il governo ha limitato gli ammortizzatori sociali. No, finiscono direttamente nelle casse dell’azienda. Che, sarà bene precisarlo, non è in crisi, ma fa fior di utili. Ora, qualcuno potrebbe pensare che quello della Società produttrice di pannelli fonoassorbenti sia un caso limite. Un’eccezione sfuggita ai severi controlli della società pubblica specializzata nel sostenere chi voglia espandersi all’estero. E invece no: è la regola. Come recita il sito internet di Simest, la missione societaria in imprese che puntano a internazionalizzarsi, «contribuendo alla loro crescita e al loro rafforzamento competitivo sul mercato unico europeo e sui mercati stranieri», Tuttavia, se poi l’internazionalizzazione produce come effetto collaterale la chiusura dell’azienda in patria e il trasloco degli impianti in Polonia, non è affare della Simest. Alla società pubblica basta che almeno il«cervello»resti qui,in Italia: il resto può emigrare. E così alcuni imprenditori si sono fatti furbi, delocalizzando, ma conservando «una parte» del lavoro in Italia. Esempi? Il call center Almaviva ha aperto una succursale in Brasile e ha ricevuto un investimento di 10 milioni, cui si sono aggiunti altri soldi sganciati direttamente dal ministero dello Sviluppo economico. Risultato dell’operazione di «internazionalizzazione», Almaviva ha rivoluzionato i servizi italiani e ha licenziato 1.600 persone a Roma. Naturalmente si può fare di meglio, come per esempio sostenere l’espatrio delle attività produttive del gruppo Marcegaglia. Con una ventina di milioni, l’industria dell’acciaio di cui è azionista l’ex presidente di Confindustria Emma, ora presidente dell’Eni, ha aperto stabilimenti in Cina e Brasile. E ovviamente ha mandato a casa 170 dipendenti in forza a Milano. Ma a Simest, che sarà bene ricordarlo è controllata da Cassa depositi e prestiti, ovvero da un ente che raccoglie e investe i risparmi dei pensionati tramite le Poste, importa poco se crescendo all’estero poi le aziende italiane decrescono a casa propria. E neppure si preoccupano di dove poi queste imprese paghino le tasse, visto che tra quelle finanziate ce n’è anche una che le imposte le versa direttamente in Lussemburgo. Ciò che conta è che una parte dell’azienda, fosse anche solo il reparto commerciale o l’ufficio reclami, resti qui. I soldi se ne possono andare all’estero, mentre i lavoratori vanno all’inferno, ma la forma per continuare a dire che si finanzia la crescita all’estero dell’azienda è salva. Un po’ meno il buon senso. Ma quello si sa che non è un bene che abbonda fra i nostri governanti.

Maurizio Belpietro

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