Pansa: “Un po’ mi dispiace ma il 25 aprile è morto. E neppure l’Anpi sta bene.”

Attualità

Milano 25 Aprile – Le risse verbali esplose attorno alla festa del 25 aprile, mi obbligano a pensare che quella ricorrenza stia morendo o abbia già tirato le cuoia da un pezzo. Personalmente me ne dispiaccio. Appartengo alla generazione che vi ha sempre creduto. Nel 1945 avevo 10 anni. E ho molti ricordi legati a tanti 25 aprile, ma il tempo passa anche per le feste civili. Soprattutto quando hanno nel loro Dna un virus terribile che le condanna senza rimedio. In questo caso, il virus della faziosità politica. Ce lo conferma anche la figura del primo capo dell’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani italiani. Un personaggio che molti non conoscono, ma che adesso incontreremo. Sulla base di un principio che ci ha offerto il filosofo Immanuel Kant: le idee camminano sulla gambe degli esseri umani.

Giovanni Pesce
Giovanni Pesce

Il personaggio in questione è Giovanni Pesce, il protagonista assoluto della guerra dei Gap, prima a Torino e poi a Milano. I Gap erano terroristi di città, quasi tutti comunisti, il ferro di lancia della guerriglia urbana condotta dalla Resistenza rossa. Era nato nel 1918 a Visone, un piccolo comune in provincia di Alessandria, ad un passo da Acqui. Da clandestino sceglierà come nome di battaglia proprio quello del suo paese natale.

Giovanni veniva da una famiglia povera che nel 1923 decise di emigrare in Francia. A undici anni il ragazzo lavorava già come guardiano delle mucche e a quattordici aveva iniziato a faticare in una cava. Si iscrisse alla Gioventù comunista francese e nel 1936, appena diciottenne, raggiunse la Spagna per combattere nella guerra civile. Da semplice miliziano, fu arruolato nel le Brigate Garibaldi e si comportò da coraggioso, restando ferito tre volte.

Dopo la sconfitta della repubblica, anche Pesce passò in Francia e venne internato in uno dei campi destinati ai reduci antifascisti della Spagna. Qui seguì la trafila che il Pci suggeriva ai propri militanti per farli ritornare in patria.
Anche Pesce chiese alle autorità francesi di essere rimandato in Italia. Al confine come era previsto, venne arrestato, andò di fronte al Tribunale speciale per la difesa dello Stato che lo condannò a un anno di detenzione. Lo scontò alle Nuove, il carcere di Torino. Poi venne mandato al confino nell’isola di Ventotene. E alla fine dell’agosto 1943, un mese dopo la caduta di Mussolini, ritornò a Visone, all’età di 25 anni.

Pesce era un giovane di bassa statura,stempiato, l’aspetto del burocrate inoffensivo, ma sotto quella maschera grigia si celava un uomo d’azione temerario, capace di una dedizione assoluta alle regole dell’ideologia comunista e in grado di muoversi nel segreto.
Furono queste doti a colpire Ilio Barontinì, un toscano di Cecina, che il vertice delle Garibaldi aveva inviato a Torino per dare una struttura definitiva ai Gap della città. In realtà a sceglierlo fu Pietro Secchia, che lo aveva conosciuto a Ventotene.
Gli misero accanto un commissario politico, Romano Bessone. Ma si trattava di una formalità. A comandare era soltanto Pesce che rispondeva direttamente a Barontini e dunque a Secchia.

«Visone» si rivelò l’uomo giusto per quell’incarico. Era un impasto di durezza e di prudenza. Dimostrò di saper pesceuccidere a sangue freddo un avversario e poi di ritirarsi nel piccolo alloggio scelto come rifugio clandestino. Da questo  nascondiglio usciva soltanto per mandare all’altro mondo l’avversario che aveva deciso di eliminare. Sopportava bene la solitudine, senza lamentarsi. Il giorno che gli capitò di parlarne con Barontini, si sentì rispondere: «Tu sei il partito. Dunque non dire mai che ti senti solo !» .

Pesce rimase a Torino sino alla fine del maggio 1944. La sua squadra attuò sabotaggi e agguati mortali a fascisti di terza fila. Poi il partito lo trasferì a Milano con il compito dì rimettere in sesto la rete dei Gap cittadini e dell’hìnterland. Dopo la Liberazione si stabilì con la moglie nella capitale lombarda.

Era stato uno dei leader della Resistenza rossa, ma il Pci non lo premiò con un seggio a Montecitorio come aveva fatto con molti altri comandanti partigiani. L’unica carica che gli toccò fu la segreteria dell’Anpi milanese. Allora vennero a galla una serie di problemi non da poco. Aldo Aniasi, anche lui un resistente e in seguito sindaco socialista di Milano per molti anni, sostenne che l’Associazione dei partigiani «era egemonizzata dagli iscritti e dalla politica del Pci. La sua linea era sostanzialmente filosovìetìca».

Cominciò il tempo delle scissioni. I primi ad andarsene dall’Anpi furono i partigiani cattolici e delle formazioni autonome. Guidati dal generale Raffaela Cadorna e da Enrico Mattei, il capo dell ‘Eni. Pesce non digerì la loro uscita. Il 29 febbraio 1948, nella relazione al congresso che l’avrebbe rieletto segretario dell’Anpi Milanese, ebbe parole di grande asprezza nei confronti dei partigiani che avevano lasciato il sodalizio rosso.

Ferruccio Parri
Ferruccio Parri

Li accusò di utilizzare fondi segreti concessi dalla Confindustria e non per fini assistenziali. Il loro scopo era di costituire delle squadre filofasciste. E subito dopo dichiarò che nel voto del 18 Aprile l’Anpi avrebbe sostenuto il Fronte popolare.

Poiché rappresentava, così disse, «il naturale sbocco delle nostre attese democratiche». Il risultato fu che, qualche mese dopo se ne andarono dall’Anpi anche i partigiani che si riconoscevano in Ferruccio Parri, il capo delle formazioni di Giustizia e libertà, l’esponente più illustre del Partito d’Azione.

Nei decenni successivi l’Anpi non ha mai cambiato profilo politico. Finché è rimasto in vita il Pci, nelle sue varie declinazioni, l’associazione è stata considerata un’appendice delle Botteghe Oscure. Poi con il trascorrere dei decenni, nelle cerimonie del 25 aprile le sinistre tradizionali sono state via via sostituite dalle truppe dei centri sociali. E le feste del 25 aprile a Milano, le più importanti in Italia, hanno cominciato a fare notizia per quello che vi accadeva. Una delle più turbolente fu quella del 2006. La prima a essere contestata risultò Letizia Moratti, ministro dell’Istruzione e candidata a sindaco di Milano. Intendeva sfilare in corso Vittorio Emanuele insieme al padre in carrozzina: Paolo Brichetto, un coraggioso combattente della Resistenza, che aveva lavorato con Edgardo Sogno per rifornire di armi e di viveri le bande partigiane.

Letizia Moratti-Paolo Brichetto

Catturato dai tedeschi, era stato deportato nel campo di sterminio di Dachau e aveva riportato a casa la pelle soltanto per miracolo. Sempre quell’anno, gli autonomi contestarono la presenza della Brigata Ebraica, che pure aveva combattuto con onore nella campagna d’Italia. Investito dai fischi fu Savino Pezzotta, il leader della Cisl. Invece applausi a gogò per Franca Rame e Dario Fo, accolto con il grido: «Ti vogliamo sindaco!».

Come andrà oggi, martedì 25 aprile 2017, nessuno lo sa. L’Anpi ha un nuovo presidente nazionale: l’avvocato Carlo Smuraglia, un signore per bene e con la testa sulle spalle. Ma neppure per lui sarà facile governare una cerimonia sempre più complicata. Forse sarebbe utile decidere che questa festa venga celebrata nel cuore di ciascuno di noi. Compresi quanti si sentono ancora legati alla memoria del fascismo. L’alternativa è di restare divisi in due Italie, sempre disposte a combattersi.

Giampaolo Pansa (La Verità)

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