Milano 2 Maggio – Forse il passo che più stupisce della Relazione consegnata dal Governo sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazione di armi per il 2016 è quello che dipinge entusiasticamente il volume del business militare, «a dimostrazione di una capacità di penetrazione e flessibilità dell’offerta nazionale all’estero».
Fa niente se poi gran parte di bombe, missili, caccia e via dicendo vadano a Paesi fuori da accordi Nato, magari regimi dittatoriali e magari fuori dal perimetro consentito dalla legge. «L’elemento che maggiormente ci preoccupa – commenta non a caso il portavoce della Rete per il Disarmo, Francesco Vignarca – riguarda la soddisfazione sia della Presidenza del Consiglio che del Ministero degli Esteri per l’aumento delle vendite di armamenti italiani», dato che «in realtà il ruolo del Governo sarebbe quello di controllore al fine di rilasciare autorizzazioni, non di sponsor dell’industria militare».
I dati che emergono dal rapporto, d’altronde, sono chiari: nel 2016 le esportazioni italiane di sistemi militari hanno superato i 14,6 miliardi di euro, con un aumento dell’85,7% rispetto ai 7,9 miliardi del 2015. E se paragonassimo il dato rispetto al 2014, sarebbe ancora più impressionante: + 452% in soli due anni.
D’altronde è la stessa relazione che sottolinea come il clamoroso balzo in avanti sia dovuto soprattutto alla commessa di 28 Eurofighter della Leonardo al Kuwait del valore di 7,3 miliardi di euro. «In 27 anni di esportazioni di sistemi militari – sottolinea non a caso Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza e Difesa (OPAL) di Brescia – si è raggiunto il record assoluto».
LA VENDITA AI REGIMI
Ma a chi vendiamo? Domanda capitale per capire il lato oscuro del made in Italy armato. C’è una legge infatti – la n. 185 del 1990 – che regolamenta in maniera esplicita il mercato bellico: «l’esportazione ed il transito di materiali di armamento – recita la norma – sono vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato» in contrasto con le direttive Onu, «verso i Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione», verso i Paesi «responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani».
Chiaro. Limpido. Lapalissiano. Eppure tra i principali acquirenti del nostro Paese troviamo il già citato Kuwait (nel 2016 esportazioni per 7,7 miliardi), l’Arabia Saudita (427,5 milioni) prima ancora degli Stati Uniti, poi Qatar (341 milioni) e Turchia (133 milioni).
Tutti Stati in cui i diritti umani vengono sistematicamente violati e su cui, tra le altre cose, ci sono pesanti ombre sulla fornitura di armi e appoggio ai miliziani dell’Isis. E poi, ancora, Paesi in cui vige la pena di morte come Pakistan e Malesia (qui, ha denunciato Amnesty, nel braccio della morte ci sono attualmente 1.042 persone): per il primo sono state autorizzate esportazioni militari per 97,2 milioni, per il secondo per 39,9.
Come se non bastasse, peraltro, la Rete per il Disarmo fa notare che, tra le zone geopolitiche di esportazione, figurano al primo posto i paesi dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente che con oltre 8,6 miliardi euro ricoprono da soli più del 58,8% delle autorizzazioni. «Fornire armi e sistemi militari a questi regimi – commenta ancora Beretta – oltre a contribuire ad alimentare le tensioni, rappresenta un tacito consenso alle loro politiche repressive». Ma non c’è da sorprendersi che proprio in questi anni ci sia stato un clamoroso balzo in avanti. Basti pensare ai tanti viaggi di Renzi, dall’Arabia al Turkmenistan. Tutti Paesi che poi, prima o dopo, hanno visto una crescita spaventosa delle commesse militari. Il regime turkmeno, per dire, è passato da acquisti per 5,7 milioni a 38,6. Ma il premier nel 2014, per dire, è andato anche in Angola, altro Paese monitorato annualmente da Amnesty per le violazioni dei diritti umani. Ebbene qui la crescita è ancora più clamorosa: da 72 mila euro nel 2015 agli 88 milioni dell’anno scorso.
IL CASO ARABO
Il caso più clamoroso, però, è senza dubbio quello saudita. Da due anni l’Arabia – insieme peraltro a Qatar ed Emirati, entrambi nostri clienti – conduce una guerra spietata in Yemen, sganciando sulla popolazione armi fabbricate in Italia. Precisamente dalla Rwm Italia, che ha sede legale a Ghedi (Brescia) e aziende a Domusnovs, in Sardegna. È bene tenere a mente alcuni dati.
Secondo quanto denunciato da Amnesty International, dal marzo 2015, quando sono iniziati gli attacchi aerei da parte della coalizione saudita, sono stati uccisi almeno 4600 civili e ne sono stati feriti più di 8mila. Come se non bastasse, quasi 19 milioni di persone sono in estrema indigenza, tanto da dipendere solo e soltanto dall’assistenza umanitaria. Una guerra ingiusta e criminale, tanto da essere stata condannata anche dall’Onu. Esattamente uno dei divieti posto alla vendita di armi dalla legge del ’90.
Come se non bastasse c’è anche il «Rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen», presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a fine gennaio, in cui si evidenzia come «i bombardamenti aerei condotti dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita hanno devastato le infrastrutture civili in Yemen». Non è un caso che già un anno fa anche il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sullo Yemen affinché si ponga fine alla guerra in corso, con un esplicito emendamento (359 parlamentari favorevoli e 212 voti contrari) che richiama la necessità di fermare il flusso di armi.
Tutto inutile dato che l’export dall’Italia continua. E anzi aumenterà. Se nel 2014 le autorizzazioni all’esportazione di armi in Arabia ammontavano a 163 milioni, nel 2015 sono raddoppiate (258 milioni) e ora quadruplicate a 427 milioni.
Ci sono peraltro due dettagli che non devono passare inosservati e che non sono casuali. La Rwm, azienda poco nota fino a poco tempo fa, ora è nel gotha dell’industria militare italiana dato che è la terza nel nostro Paese dopo “mostri” come Avio e Leonardo.
Basti questo: le licenze di esportazioni rilasciate dal ministero degli Esteri alla Rwm (ovviamente per commerciare non solo con l’Arabia) per il 2016 ammontano a 489,5 milioni. Nel 2015 erano “solo” 28 milioni.
Ma c’è un altro balzo non indifferente. E riguarda la (non più) piccola Banca Valsabbina, una popolare in provincia di Brescia, divenuta uno dei più importanti istituti di credito da cui passano le maggiori transazioni finanziarie legate all’esportazioni di armi. Ebbene la Valsabbina è la terza banca in questa speciale classifica dietro solo a Unicredit (1,2 miliardi) e Deutsche Bank (797 milioni) con transazioni per 262 milioni. Molto di più rispetto a colossi come Intesa o Bnl. La relazione, come sempre poco trasparente a riguardo, non rende conto dei fornitori per cui hanno agito le singole banche. Ma c’è una curiosità: la Valsabbina ha sede, come detto in provincia di Brescia, dove non a caso ha sede, tra le altre, proprio la Rwm Italia. Non a caso la Campagna di pressione alle “banche armate” ha annunciato per i prossimi giorni una mobilitazione «per fare in modo che Banca Valsabbina faccia chiarezza soprattutto se sta offrendo servizi a Rwm Italia per l’esportazione di bombe all’Arabia Saudita che, come documentato dall’Onu, le sta utilizzando in Yemen bombardando anche zone civili».
Carmine Gazzanni (Linkiesta)
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