Milano 8 Maggio – «Affrontare la realtà del mondo ci farà ritrovare la speranza». L’incipit del libro di Emmanuel Macron non è di quelli che incollano il lettore alla pagina, ma riassume bene le aspettative e le speranze di chi guardava al 23,75% del candidato di En Marche come a una semina già fruttuosa. In una Francia dove più del 40% degli elettori si appassiona alle promesse di chiusura delle frontiere e più redistribuzione, nella versione nera di Le Pen o in quella rossa di Mélenchon, Macron è il candidato della serietà. Quello che anziché urlare che «un altro mondo è possibile» pensa a come scongiurare il collasso del mondo che c’è.
È attentissimo, Macron, a cucirsi addosso quest’immagine. Nato ad Amiens in una famiglia di medici ospedalieri, tiene a specificare che si tratta di «una famiglia borghese di recente data».
Il biglietto d’ingresso alla classe media è stato lo studio: la nonna insegnante, i genitori e i fratelli dottori, il giovane Emmanuel è una sorta di pecora nera, ma del genere docile, anziché fare medicina s’iscrive all’Ena. Il fondatore di En Marche è secchione e fiero di esserlo. Il che sa come di bucato, in una politica dove ormai vince solo chi urla di più.
La Rivoluzione di Macron vorrebbe allora essere la rivoluzione della normalità e del pragmatismo, delle persone competenti e per bene che arrivano, per merito, dove le persone competenti e per bene, per merito, dovrebbero arrivare. Questa serietà, però, si concretizza in una studiata refrattarietà alle idee forti, evidentemente pensata come la più persuasiva risposta agli avventurismi politici. Rivoluzione è una sinfonia dei “ma anche”. Ci sono tutti i luoghi comuni delle nostre classi dirigenti, diligentemente messi in fila, senza perder tempo a chiedersi in che misura siano coerenti gli uni con gli altri.
«Se per liberismo s’intende fiducia nell’individuo – spiega Macron – sono (…) liberale». Ma se «essere di sinistra significa pensare che il denaro non conceda tutti i diritti, che l’accumulo del capitale non debba essere considerato l’unico orizzonte vitale, che le libertà del cittadino non debbano essere sacrificate a un imperativo di sicurezza assoluta e inattingibile, che i più poveri e i più deboli debbano essere tutelati e non discriminati», allora è “di sinistra” «con altrettanta convinzione». Macron è contro l’ugualitarismo se implica appiattimento, ma vede come uno scandalo «le nuove diseguaglianze». Vuole ridurre le tasse sulle imprese, semplificare gli oneri amministrativi ma anche «agire in sede europea contro i “giganti” americani o asiatici che ci fanno concorrenza sleale» (locuzione dove l’aggettivo è tipicamente pleonastico). Ritiene che la riduzione dei deficit di bilancio è stata necessaria per «far fronte all’emergenza, quando l’euro è stato minacciato» ma anche che «l’austerità non è un progetto». Immagina una rivoluzione della scuola e la fa coincidere col «rimettere il mestiere di professore al centro della vita della Repubblica». Ammette che il sistema delle 35 ore è troppo rigido ma suggerisce che «per alcune imprese le 35 ore vanno benissimo».
Propone non senza coraggio di ridurre la spesa pubblica, ben consapevole del carattere intrinsecamente conservatore della burocrazia, e ha paura che a un certo punto il paese finisca per «vivere per l’amministrazione, e non l’amministrazione per il paese». E tuttavia vuole grandi investimenti con un orizzonte almeno quinquennale: a cominciare dalle energie verdi.
La politica, per carità, è un esercizio di sintesi. E tuttavia non è sbagliato chiedersi: sintesi di che cosa? Macron mette sullo stesso piano “dottrinari” colbertisti e liberisti, proponendosi di collocare prudentemente la verità nel mezzo. Il non trascurabile dettaglio è che se liberisti vi sono in Francia, essi esercitano un’influenza risibile, mentre Colbert ha eredi a destra e a sinistra, e tutt’ora a lui s’ispira la politica economica francese. L’equidistanza fra liberismo e politica industriale è già preferenza per la politica industriale.
Per l’enarca Macron «innovare per innovare è come camminare senza una meta». L’innovazione andrebbe diretta, indirizzata, canalizzata in una direzione o in un’altra. Parole che suonano benissimo, in un manifesto garbato: e che tuttavia trascurano un altro dettaglio, l’ostinazione con cui le novità non si fanno pianificare.
Sarebbe sbagliato immaginare che un aspirante Presidente della Repubblica francese s’ispiri a modelli che francesi non sono. Macron non ha pensatori di riferimento ma sa che «la nostra storia ha fatto di noi dei figli dello stato, e non del diritto, come negli Stati Uniti, o del commercio come in Inghilterra» Di quella storia intuisce i pericoli, il rischio di un orizzonte nel quale lo Stato sia tutto e l’individuo invece nulla.
Se un ripensamento dev’esserci, non sono queste combattutissime elezioni il momento più propizio. Macron cita con rispetto il generale De Gaulle, tocca tutte le corde del patriottismo eppure dove il suo manifesto è davvero rassicurante per noi tutti è nella convinzione che si possa essere e rimanere francesi senza rinunciare a stare nel mondo.
Mentre è impegnato a mescolare efficienza e buoni sentimenti, a Macron sfugge un’osservazione solo all’apparenza banale: «Dire che uscire dal modello globale significherebbe vivere meglio è una menzogna». Se la globalizzazione ha prodotto alcune categorie di “sconfitti”, la chiusura protezionista può produrne molte di più.
Alberto Mingardi (Il Sole 24 Ore)
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845