Milano 10 Maggio – ‘U sparitu’ non aveva pistole. E non ne aveva bisogno. Lui, custodito nella centralissima via XXIV Maggio, nel cuore di Platì, con un intero paese a fargli da guardiano. Con la gente che riempie la strada quando i Cacciatori di Calabria e i carabinieri di Locri scortano Barbaro fuori dall’uscio di un palazzo di tre piani senza neppure l’intonaco. Un paese in piazza per rendere l’ultimo omaggio al boss mentre Rocco Barbaro sale sull’auto che lo porterà in carcere. Nessuno ha avuto bisogno di chiedere chi fosse quell’uomo con i capelli brizzolati, la maglietta nera e un giubbotto di pelle marrone arrotolato sui polsi per coprire l’infamia delle manette. A Platì, Rocco Barbaro lo conoscevano tutti. Non foss’altro perché è il figlio del principe della ‘ndrangheta, quel Francesco Barbaro, detto ciccio ‘u castanu, 90 anni, oggi detenuto nel supercarcere di Parma e capostipite della ‘ndrina più importante d’Aspromonte.
Il giubbotto di pelle e il bar in centro
Eppure la faccia quasi anonima di questo uomo di 51 anni, con i capelli tagliati di fresco, qualcuno potrebbe ricordarla da tutt’altra parte. A mille chilometri da questo paese di pecore e pastori nel cuore dell’Aspromonte. Nel centralissimo corso Europa, a una manciata di passi dal Duomo di Milano. E magari con quello stesso giubbotto di pelle marrone che ora gli copre i ferri ai polsi. Così lo immortala una fotografia scattata dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano nel 2013 durante un pedinamento, mentre lui, sistemandosi i pantaloni, esce dal bar Vecchia Milano. Il suo bar. Perché Rocco Barbaro, nato a Platì il 30 giugno 1965, era latitante da un anno e mezzo (e nei trenta più pericolosi secondo il Viminale) dopo che nei suoi confronti era stata emessa un’ordinanza cautelare per intestazione fittizia di beni e associazione mafiosa. Al centro proprio la vicenda di quel bar tabacchi nel cuore di Milano, acquistato da Barbaro con lo schermo di alcuni prestanome. Cosa unisca due luoghi così distanti tra di loro — uno il centro della finanza e dell’economia italiana, l’altro il feudo più impenetrabile delle cosche — altro non è che l’esemplificazione chiarissima dell’immensa potenza della mafia calabrese, capace di unire pecorai, commercialisti, picciotti e colletti sporchi. Era il 2013 e in quei giorni Rocco Barbaro lavorava come gommista in un’officina di via Toscanelli a Buccinasco, dove si era trasferito nel luglio 2012 dopo essere stato scarcerato dal carcere di Piacenza. Era stato detenuto quindici anni per traffico di droga.
Qualche mese prima — il 28 novembre 2012 — i carabinieri intercettano una straordinaria conversazione tra il braccio destro dei Papalia di Buccinasco, Agostino Catanzariti, e un altro affiliato, Michele Grillo (entrambi arrestati nell’operazione Platino): «Questo qua è il capo di tutti i capi! Per regola, è capo di tutti i capi, di quelli che fanno parte di queste parti», spiega Catanzariti. ‘U sparitu — soprannome che divide con il fratello Giuseppe, detto anche ’u Charly, latitante per 14 anni — in quel periodo vive in via Lecco a Buccinasco e secondo Catanzariti ha la dote del «vangelo». Così come il figlio Francesco, 27 anni: «Se l’è preso la buonanima di Nunzio Novella (allora capo della Lombardia, ndr) e gli ha dato dalla A alla Z… Quando ha fatto diciott’anni, gli ha dato dalla A alla Z».
Rocco Barbaro, secondo gli investigatori, è in quel momento il nuovo referente della ‘ndrangheta in Lombardia. E lo è per dinastia, erede del casato più importante delle cosche di Calabria. Quando nel gennaio 2014 il Corriere riporta la notizia, il sindaco di Buccinasco Giambattista Maiorano scrive al ministro Anna Maria Cancellieri esprimendo preoccupazione per la scarcerazione di Barbaro. Qualche settimana dopo il 51enne decide di lasciare la Lombardia e di tornare a Platì nell’attesa che le acque si calmino. Nel frattempo però, attraverso il nipote Antonio, Rocco Barbaro e il figlio Francesco acquistano il Vecchia Milano di corso Europa. In mezzo ci sono anche Fortunato Danilo Paonessa, 43 anni, messinese ma legato al clan Pesce-Bellocco di Gioia Tauro, il reggino Domenico Martorano, 38 anni, e il 38enne Raffaele Greco, originario di Vibo Valentia.
Oggi dietro alla cassa (il locale è regolarmente aperto e non è mai stato sequestrato dall’Antimafia) c’è Ivan Marcello, 34 anni, di Sant’Onofrio (Vibo Valentia), cugino di Greco. Le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo, adesso guidati dal tenente colonnello Michele Miulli, ricostruiscono il giro societario che lega il bar al clan di Platì. Ma in prima battuta il gip emette un’ordinanza di custodia in carcere solo per il reato (minore) di intestazione fittizia di beni, poi trasformata anche in associazione mafiosa dopo il ricorso della Procura in Cassazione. In ogni caso, quando a metà gennaio i carabinieri vanno ad arrestare Barbaro lui non c’è. E sembra sia riuscito a sparire — fedele al soprannome — proprio pochi minuti prima che i militari facciano irruzione a casa sua.
L’omaggio al brigadiere Marino
Da quel momento inizia una latitanza tutta vissuta sulle montagne d’Aspromonte. Come vuole la tradizione di famiglia. I carabinieri, guidati dal tenente colonnello Pasqualino Toscani, comandante del Gruppo di Locri, sono arrivati a casa Barbaro all’ora di pranzo. La tavola imbandita, in casa i quattro figli, i sei nipoti, la madre e la moglie Carmine Maria Papalia, 46 anni. Lei è la nipote di Domenico, Antonio e Rocco Papalia, il boss di Buccinasco scarcerato venerdì da Secondigliano (Napoli) dopo 26 anni di carcere. A rafforzare, come se ce ne fosse bisogno, le parentele nobili di ‘u sparitu, anche l’alleanza con i potenti Pelle di San Luca: la sorella Marianna, 50 anni, è sposata con Giuseppe Pelle, l’erede del boss ‘Ntoni Gambazza.
Quando i carabinieri sono entrati in casa, sfondando la porta con un ariete, Rocco Barbaro ha provato a scappare per le scale e poi fino al tetto dove però lo aspettavano, acquattati, i Cacciatori. A quel punto s’è arreso, buttando lì come da tradizione i complimenti al comandante e ha ordinato alla madre Elisabetta di mettere su il caffé per i carabinieri. «Siamo riusciti a eludere il ferreo controllo del territorio del clan — spiega il tenente colonnello Toscani —, e di giorno, nel pieno centro del paese, è una operazione molto complessa. Chi conosce questo territorio sa quanto sia impenetrabile». E alla fine arriva la dedica al brigadiere Antonino Marino, carabiniere di Platì ucciso il 9 settembre del ‘90 a Bovalino. A sparare proprio il padre di Rocco, Ciccio ‘u castanu, condannato due anni fa all’ergastolo insieme al boss «milanese» Antonio Papalia: «Questo successo va a lui, alla memoria di un grande carabiniere».
Cesare Giuzzi (Corriere)
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