L’incubo di un viaggiatore di passaggio nella notte dei “senza speranza” della Stazione Centrale. Un brutto sogno? No, una storia vera
Milano 29 Maggio – Ore 23, arrivo da Dublino a Milano, e arrivo alla Stazione Centrale. Quella dove hanno accoltellato un poliziotto. Non ci sono treni per Rimini, il primo è alle 5, e mi metto a decidere il da farsi appena fuori dalla stazione. Sono nel piazzale di fronte, sull’esterno. Mi siedo sul basamento di uno degli archi, metto le valigie dietro a me. Mi guardo intorno, mi rilasso un attimo, accendo un sigaro. A fianco un ragazzo che sembra un tunisino armeggia col cellulare. A destra, a un centinaio di metri da me, una postazione dell’esercito. Davanti, a sinistra, seduti sui giardini e sui gradini, appoggiati ai pali, tunisini, africani, qualche forse sudamericano. Vestiti male ondeggiano, ridono, bevono, si lavano i piedi. Mi giro un istante: non c’è più una delle mie valigie, quella col computer dentro.
Penso rapidamente: dove potrà essere scappato? Entro sotto gli archi, prima dell’ingresso: non c’è nessuno in vista a parte un paio di tunisini barcollanti e un algerino, che mi chiede cosa succede. Dice che non ne sa niente in un italiano misto col francese “Uollah non so niente. Inahullah valigia non ho visto. Dentro era ordinateur? No visto Uollah, da dove vieni, Irlanda? dimmi come faire ad andare in Irlanda senza papier”. Me ne libero in fretta, esco di nuovo, e decido di girare tutta la stazione. Difficile essere più duri della mia testardaggine.
Ma inizia un viaggio nel profondo della stazione: vado diritto dove ci sono una ventina di neri stesi sul prato, seduti ai bordi del gradino che dà sul passaggio pedonale in marmo: li guardo avvicinandomi. Hanno cinque o sei valigie con loro. Sono più vicino, uno mi grida “cosa vuoi?”: rispondo: “la mia valigia”. Mi dicono “la tua non c’è” mentre armeggia attorno alla serratura di una valigia grigia. Voglio controllare lo stesso, allungo lo sguardo: uno mi grida “fai denuncia! fai denuncia!”, un altro si avvicina e mi consiglia di star lontano. Giro lì attorno un paio di volte. Il tizio sembra non riuscire ad aprire la valigia grigia mentre altre due valigie sono aperte lì di fianco.
Viene fuori una signora bianca abbruttita da quella vita, bassa, quasi una nana. E’vestita di blu, ha scarpe spaiate. Fuma e mi chiede una sigaretta, che non ho. Ho sigari, e non te li posso dare, rispondo. C’è puzza di urina, di umano.
Perduti. Questa è gente perduta, se nessuno se ne prende cura, se non li portano via di qui, se non li mettono a fare qualcosa. Le luci dei lampioni lasciano grandi spazi in penombra, fatico a vedere bene in mezzo a quel mucchio di gente. Lei mi ripete tranquillo, non c’è la tua valigia fra queste. In effetti non c’è. Mi avvicina uno coi rasta, e esprime sincero dispiacere appena prima di chiedermi un euro. Mi allontano, e vado verso il fondo della piazza, deciso a girare tutto l’esterno della stazione. Arriva un altro, mi porta lontano sottobraccio. Un bel ragazzo alto coi ricci, nero come questa notte. Mi dice “ehi amico, vuoi coca? Ce l’ho buona”. Ringrazio ma dico che non la voglio, voglio solo la mia valigia. Dentro ci sono cose molto preziose, documenti importanti, oltre che il computer. “Non chiamare la polizia”, soggiunge complice.
Proseguo: inizio a guardare lungo la fiancata destra della stazione, uomini stesi in un’unica serie di coperte, vestiti, sacchi a pelo, zaini di chissà chi, sui gradini degli archi laterali, dove arrivano le corriere dall’aeroporto. Uno olivastro, cappellino nonostante sia notte, e maglietta fosforescente da lontano inizia ad urlarmi: “cosa vuoi!”. Rispondo “la mia valigia, ce l’hai te?” lui mi dice “io nessuna valigia! hai problemi? – grida sempre più forte – Hai problemi?”. Sopra di lui un lampione crea effetti strani, il suo cappellino allunga un’ombra sino a terra.
No, non ho problemi, se non li hai tu, tutto a posto. Mentre sto parlando sento un odore di vestiti sporchi, e da dietro un tunisino mi parla e mi dice “lascia stare, lui ubriaco, lui matto”. Vado via, continuo a girare. Un negro grosso il doppio di me, due spalle così, con una voce stranamente acuta mi confida che il tizio che mi ha offerto la coca non ce l’ha buona. Dice che mi rifilerebbe un bidone, di lasciarlo stare, e che se voglio lui ha quella buona. Sottolinea che mi devo fidare di lui.
No guarda, voglio solo la mia valigia, e proseguo. Decido di tirare diritto lungo il parco che affianca la stazione: a destra una panchina con una valigia vuota sopra. No, non è la mia. Poco più avanti, a sinistra, due negri che rovistano dentro uno zaino mi guardano con lo sguardo vacuo. Passa di lì il primo algerino, quello che parla un interessante mistilingue. “No cercare più inaullah. Ordinateur scappato via. Portano via manteinant, subito. Quello negro no ha coca, dice bugie: vuoi hashish? Come faire andare Irlanda?” Di fianco intanto passa un tizio olivastro, trascinando due valigie, una grande e una da bimbo. Ma la mia non c’è. Il mio nuovo amico continua a ripetere la stessa cosa.
Passo di fianco, mentre uno coi capelli corti e puzzolente si sta lavando i piedi nella fontana. Provo a cambiare lato, e passo di nuovo di fianco all’assembramento principale. Un altro mi grida di andare via, mentre un ragazzo giovane si avvicina con fare minaccioso, il volto nero lucido riflette la luce dei lampioni gialli e bassi. Si mette di mezzo quello coi rasta di prima, e dice di andare via, conferma che gli dispiace molto, e se per caso ho un euro per lui. Con la mano si gratta la spalla, e con gli occhi guarda da qualche altra parte. Intanto si son messi in due a lanciare per terra la valigia grigia, che finalmente si apre con un crepitio, e una felpa rossa cade sul selciato. I due si avventano con le mani: sembrano scavare nelle viscere di un animale. Un tunisino -credo- mi taglia la strada, e con una faccia splendente mi propone un po’ di pasticche, ecstasy, anfetamine. Non farti sentire dalla polizia, mi consiglia con fare complice. Ringrazio ma dico no, ho da fare. Faccio tutto il giro della stazione, e un paio di volte incontro gente che rovista in valigie simili alla mia: di una stavano spezzando la maniglie, dell’altra svuotando le membra.
Uno mi lancia una lattina di birra, ma dev’essere molto ubriaco perché mi manca di molto. Ha una collana colorata al collo, capelli rasta e un orologio bianco che spicca sul nero delle braccia nude. Mi ritrovo in fondo alla via con il parco e le panchine, sono dall’altro lato rispetto a prima, avendo girato intorno al grande edificio della stazione.
Sotto una panchina vedo una valigia: mi avvicino, è la mia. La apro: il computer non c’è più, ma il tizio si è preso la cura di rovesciare tutti i documenti nel bidone: raccolgo tutto, e me ne torno davanti alla stazione. Saluto quelli che han sventrato la valigia grigia, la nana puzzolente, il negro coi piedi lavati che intanto si è seduto a tracannare un cartone di tavernello. Si son fatte le due, a questo punto aspetto il treno delle cinque, vado a comprarmi il biglietto.
incontro un poliziotto mentre cerco di entrare in stazione (perché la stazione è chiusa, e fanno entrare solo le persone con il biglietto), che mi ferma e mi chiede che cosa voglio. Devo aver preso i modi di quelli di fuori, perché mi guarda male. Racconto quanto successo, compresa la serie di offerte di droghe varie (sì, amici, ho tradito la vostra fiducia, mi dispiace).
Mi guarda desolato: “eh, nemmeno il servizio di Striscia la Notizia è servito” commenta. “Noi li mettiamo dentro, ma vanno subito fuori.”
Quanta gente perduta. Non sanno fare niente, non possono fare niente. Stanno lì, mentre la rabbia dei poveri fermenta, mentre la loro vita diventa sempre più una sola linea da passare tra la notte, qualcosa da rubare, qualcosa da mangiare, qualcosa da spacciare.
Questa è la faccia della notte di Milano Stazione, è la faccia di chi arriva qui perchè non ha nulla da perdere, e a far loro spazio spetta solo a chi ha già poco. Mentre i buonissimi se ne stanno da qualche altra parte a spiegare come bisogna fare.
La Stazione Centrale di Milano di notte è un suono, un rumore continuo, una selva di odori, di persone ondeggianti, un pezzo di metallo piegato e caldo, un catino bucato, una discarica, un tempo e un luogo diverso dalla Milano del giorno.
L’algerino ha un occhio più grande dell’altro, ha la bocca con una smorfia perenne, e si muove in modo strano, come se dovesse scivolare di fianco. Mi ripete che l’ordinateur se ne è andato, mi parla dell’Irlanda, mi chiede una sigaretta, mi dice che domani sarà bello.
(Post di Samuele Libero Zerbini, imprenditore, ex consigliere comunale del Pd a Rimini. – Tratto da “Tempi”)
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