Milano 15 Giugno – Duecentocinquant’anni fa. Correva il 15 giugno 1767 quando Cosimo Piovasco di Rondò per l’ultima volta sedette in mezzo ai suoi, quindi dicendo addio alla montaliana «razza di chi rimane a terra», per arrampicarsi sugli alberi, a cominciare dall’elce, non scendendovi più.
Cosimo, il barone rampante, dopo il visconte dimezzato, prima del cavaliere inesistente. La trilogia fantastica di Italo Calvino, ligure come il suo dodicenne eroe, fra coloro che (Bartleby) sanno dire no, al no restando fedeli: « – E io non scenderò più! – E mantenne la parola».
Cosimo o la fuga dal mondo di ieri, Cosimo insofferente degli orizzonti angusti, che sfumano, si dileguano, solo salendo, solo andando «più in alto che si poteva», liberando così lo sguardo e la mente, sottraendoli alle idées reçues annidate negli ottusi imperativi paterni, per esempio non scivolare lungo la balaustra rischiando così di buttar giù le statue degli antenati…
Cosimo – spiegherà Calvino – non è un misantropo, «ma un uomo continuamente dedito al bene del prossimo, inserito nel movimento dei suoi tempi, che vuole partecipare a ogni aspetto della vita attiva: dall’avanzamento delle tecniche all’amministrazione locale, alla vita galante. Sempre più capendo che per essere con gli altri veramente, la sola vera via era d’essere separato dagli altri, d’imporre testardamente a sé e agli altri quella sua incomoda singolarità e solitudine in tutte le ore e in tutti i momenti della sua vita, così come è vocazione del poeta, dell’esploratore, del rivoluzionario».
Come Flaubert, Calvino potrà dire del suo barone rampante: c’est moi.
Bruno Quaranta (La Stampa)
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