Milano 29 Giugno – Alla morte di Galeazzo II gli successe il figlio Gian Galeazzo, e la suddivisione dello Stato continuò dunque tra lui e lo zio Bernabò. Gian Galeazzo aveva ventisette anni e già era vedovo della moglie e padre di due figli. Ciononostante lo zio Bernabò lo considerava ancora un ragazzino e si sentiva in dovere di accoglierlo nella propria famiglia. Il desiderio di Bernabò di legare a sé la sorte del nipote fu evidente anche dal fatto che gli diede come seconda moglie la figlia Caterina (Bernabò aveva avuto dieci femmine e cinque maschi dalla legittima moglie, Regina della Scala; ma tra legittimi e illegittimi ne aveva in tutto una trentina).
Bernardino Corio, in ‘Storia di Milano’, scrive che Gian Galeazzo aveva fama di essere un cattolico devoto e mite prima che i fatti ne rivelassero la sua vera natura. Nonostante l’affetto dimostratogli da Bernabò, Gian Galeazzo era talmente impaurito dalla famiglia dello zio da temere per la propria vita. Giunse al punto di non uscire dal proprio palazzo in assenza di una ben fornita scorta armata, cosa che lo faceva sembrare debole e pauroso agli occhi dei cugini che si burlavano di lui. Altri scrittori sostengono che Gian Galeazzo fu abile nel fingere grande affetto per lo zio nutrendo nello stesso tempo scarsa fiducia nel parentado.
Poiché aveva l’abitudine di girare accerchiato dalla ben sostenuta scorta armata, nessuno si stupì quando nel 1385 Gian Galeazzo si presentò allo zio per scambiare un semplice saluto ma portandosi appresso la sua scorta. Fu Gian Galeazzo a volere l’incontro. Era a Pavia quando annunciò che sarebbe partito per un pellegrinaggio e, dovendo passare da Milano, chiese allo zio di poterlo incontrare per un saluto. Bernabò, immaginando il tipico incontro tra parenti caratterizzato dai consueti baci e abbracci, si recò all’appuntamento presso la Pusterla di Sant’Ambrogio accompagnato da due dei suoi figli senza armi né scorta. In verità i baci ci furono, ma quelli di ‘Giuda’. Dopo i convenevoli, seguì il copione rivisitato del tradimento del Nazzareno.
Gian Galeazzo fece aggredire e catturare lo zio e i due cugini dalla scorta che egli, contrariamente a Bernabò, non aveva mancato di portarsi appresso; quindi li fece rinchiudere quali prigionieri prima nel castello che suo padre aveva costruito presso Porta Giovia, poi in quello di Trezzo che era stato costruito da Bernabò stesso. Molti dei suoi trenta cugini trovarono riparo dislocati nelle varie città presso le quali non mancavano i legami di parentela. Infine Gian Galeazzo s’impadronì di tutta Milano e delle altre città governate dallo zio. Bernardino Corio scrive che in quel tempo fu cosa inaudita che un uomo da tutti temuto e onorato, fosse fatto prigioniero in una sola ora, e senza che nessuno intervenisse in suo aiuto, da un giovane timido e pio quale Gian Galeazzo. I milanesi sembravano assistere del tutto estranei a tali fatti fino a quando Gian Galeazzo non istituì un processo contro lo zio per giustificare il suo atto come legittima difesa.
Il nipote sosteneva, infatti, che lo zio stesse architettando per toglierlo di mezzo e dare tutti i suoi beni ai suoi numerosi figli. Stranamente s’istituì un processo contro colui che era semplicemente sospettato di aver pensato a un tradimento senza mai averlo realizzato, ma non contro chi in effetti il tradimento lo seppe infine concretizzare realmente.
Un’altra accusa mossa contro Bernabò era che stava governando male e per colpa sua il popolo iniziava a opporsi alla signoria. A detta di Gian Galeazzo alcuni avevano chiesto a lui espressamente di prendere provvedimenti contro lo zio (L’autogoverno dei milanesi – Chimera editore). In accordo con ciò, Bernardino Corio riporta che Bernabò aveva regnato per trent’anni con tale austerità che non solamente la Lombardia ma tutta l’Italia era impaurita da lui. Fatto sta che dal momento in cui fu istituito il processo, il popolo iniziò ad appassionarsi alle vicende dei Visconti nello stesso modo in cui oggigiorno i telespettatori si appassionano alle telenovele. Bernabò trascorse alcuni mesi di rabbiosa prigionia; quando poi i milanesi iniziarono a dimenticarsi di lui, dopo pochi mesi, per prudenza, fu ucciso secondo l’usanza del tempo: avvelenato con una ciotola di fagioli. Aveva sessantasei anni e secondo il Corio morì chiedendo perdono dei suoi precedenti peccati. Il nipote Gian Galeazzo non mancò di organizzare per lui sontuosi funerali.
Nonostante il suo dubbio modo di agire, Gian Galeazzo fu benvoluto sia dal popolo sia dai suoi soldati ai quali permise di saccheggiare i beni dello zio. Naturalmente non fu per nulla benvoluto dal nuvolo di eredi di Bernabò che fremevano dalla voglia di dimostrarglielo; per tale motivo Gian Galeazzo non si sentì mai pienamente tranquillo. Per godere di un po’ di sicurezza cercò di avvicinarsi alla Francia, cosa che fece promettendo al duca Luigi d’Orléans, fratello del re, la mano di sua figlia Valentina, fatto che ebbe notevoli conseguenze per Milano.
Nel 1386, non si sa bene se per devozione religiosa, per quietare la propria coscienza, oppure per distrarre i milanesi dal ricordo di Bernabò, Gian Galeazzo diede il via all’edificazione del sontuoso Duomo di Milano, un progetto la cui piena realizzazione richiese ben 500 anni. E ce ne sarebbero voluti anche di più, se la gran quantità di materiali necessari per l’edificazione fosse stata trasportata esclusivamente attraverso le polverose strade di terra battuta della città.
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Dal libro ‘All’ombra del castello’ di Michela Pugliese.
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