Milano 4 Luglio – Da ieri mattina gli ingressi del Palazzo di giustizia di Milano sono tornati ad essere presidiati dai carabinieri. Finisce, dunque, l’esperienza dei “portieri” che tante polemiche avevano suscitato negli ultimi tempi.
Per capire come si sia giunti a questa decisione, che arriva direttamente dal Ministero della Giustizia, è necessario però fare un passo indietro.
Fino alla fine degli anni novanta del secolo scorso, la vigilanza dei tribunali italiani era affidata ai militari dell’Arma. Per risparmiare sui costi di gestione e, soprattutto, recuperare personale da destinare al pattugliamento del territorio, si optò per affidare il controllo degli accessi alle società di vigilanza privata. Ciò fece storcere la bocca a molti, in particolare per il fatto che trattandosi di servizi assegnati con gare pubbliche, la scelta veniva effettuata seguendo il criterio del massimo ribasso.
A Milano, per risparmiare il più possibile, venne addirittura effettuato un bando di gara che prevedeva che una parte di questo personale potesse essere anche disarmato. Quindi neppure dei “vigilantes” ma dei semplici portieri con limita esperienza e qualificazione professionale.
I dubbi per la scelta del comune di Milano, che fino allo scorso anno provvedeva alle spese per la manutenzione e gestione del Palazzo di giustizia, di affidare la sicurezza di un obiettivo sensibile a dei portieri senza armi furono prontamente rispediti al mittente. I ricorsi da parte di chi aveva manifestato “perplessità” su questa decisione furono tutti respinti dal giudice amministrativo.
Come spesso accade in Italia, purtroppo, c’è bisogno di un fatto tragico affinché si torni sui propri passi.
A Milano ciò avvenne con la strage del 9 aprile del 2015 quando Claudio Giardiello, un imprenditore fallito, eludendo i controlli, era riuscito ad entrare con una pistola in tribunale e aveva ucciso un giudice, un avvocato e un suo testimone.
Il terribile fatto di sangue, in uno dei posti che sulla carta dovrebbe essere il più sicuro della città, sollevò come prevedibile un vespaio di polemiche.
Fu il procuratore generale Roberto Alfonso, quello che poi avrebbe indagato il sindaco Beppe Sala per i fatti di Expo, il primo a sollevare dubbi su come era stata “concepita” la sicurezza del Palazzo di giustizia.
Un suo studio, trasmesso anche la ministro della Giustizia Andrea Orlando, evidenziò tutte le criticità del sistema e propose, come unica soluzione, quella del ritorno al personale dell’Arma dei carabinieri che avrebbe dato maggiori garanzie in tema di affidabilità ed esperienza.
Come se non bastasse, il mese scorso un’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Milano è venuta a scoprire che la società che fornisce i tanto discussi portieri fosse addirittura legata al clan mafioso dei Laudani, il braccio armato del boss siciliano Santapaola. La società viene commissariata e i sui vertici arrestati.
Nell’attesa che qualcuno, prima o poi, spieghi come mai non ci sia accorti in questi anni che i titolari di questa società di vigilanza fossero legati ad una cosca mafiosa, l’episodio è la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Niente rinnovo del contratto ai portieri, dentro i carabinieri. Da quanto si è potuto apprendere l’imput è giunto direttamente dai piani alti di via Arenula.
Il personale della società di vigilanza, che solo ieri ha ricevuto la comunicazione di questa decisione, da oggi è in cassa integrazione. Non si esclude che quanto accaduto a Milano possa nei prossimi mesi accadere anche in altri tribunali.
Nato a Roma, laureato in Giurisprudenza e Scienze Politiche,
ha ricoperto ruoli dirigenziali nella Pubblica Amministrazione.
Attualmente collabora con il Dipartimento Scienze Veterinarie e Sanità Pubblica dell’Università degli Studi di Milano. E’ autore di numerosi articoli in tema di diritto alimentare su riviste di settore. Partecipa alla realizzazione di seminari e tavole rotonde nell’ambito del One Health Approach. E’ giornalista pubblicista iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia.