Milano 16 Luglio – Maria Torres Munoz, 28 anni di Caracas, lavora a New York come giornalista. «Maduro controlla i mezzi di comunicazione, a casa non potrei lavorare. Chiedere lo status di rifugiata, però, significherebbe non tornare mai più. E arrendersi all’idea che le cose non cambieranno mai»
“In Venezuela abbiamo la formula perfetta per distruggere un intero Paese”.
Maria Torres Muñoz, 28 anni da Caracas, cerca di sorridere, sforzandosi di mostrare quel cinico distacco dai fatti che la sua professione richiede. Siede a un tavolino di uno spazio di co-working a Brooklyn, stretto tra un Mc Donalds e una palestra di fitness alla moda, a 2 mila miglia da casa. Eppure non ci riesce.
Sei anni fa si è trasferita in Colombia e poi a New York, dove lavora come giornalista e documentarista.
“La mia, e quella di molti altri, è una situazione esistenziale particolare. Non posso tornare a casa, perché il regime, attraverso imprenditori privati legati a Maduro, controlla la quasi totalità dei mezzi di comunicazione, e non potrei lavorare. Ma non posso neanche chiedere lo status di rifugiata perché questo vorrebbe dire rinunciare per sempre alla possibilità di tornare a in Venezuela, e arrendersi all’idea che le cose non cambieranno mai”.
Quale è stata la causa scatenante dell’attuale ondata di proteste in corso in Venezuela?
“Nel 2015, dopo le proteste del 2014, le forze di opposizione conquistarono la maggioranza nell’Assemblea Nazionale, che detiene il potere legislativo. Tuttavia le forze governative riuscirono a strappare all’opposizione la maggioranza assoluta, denunciando brogli (mai provati) in alcune circoscrizioni. Alle opposizioni vennero così sottratti tre seggi determinanti per far approvare le dovute riforme.
Negli ultimi due anni ci sono state quindi molte tensioni, culminate quando, poche settimane fa, la Corte Suprema – composta ancora da giudici legati alle forze governative – ha stabilito che ogni proposta di legge contraria all’azione politica di Maduro è da considerarsi illegittima. Sulla base di questa decisione, il governo ha dichiarato illegale ogni manifestazione di protesta e questo ha causato una sollevazione”.
Per capire la situazione venezuelana bisogna partire da un dato.
Nel 2013, quando Maduro vinse le elezioni servivano 25 Bolivar Venezuelani per comprare un Dollaro Americano. Oggi ne servono 7.960. Il salario minimo, nel frattempo, è precipitato a 31 dollari al mese. L’inflazione, tuttavia, non è che la spia di un problema che, come spiega Maria, è ben più complesso e articolato.
“Il Paese è stretto nella morsa di una serie di circoli viziosi, che come un’anaconda lo stanno soffocando. La crisi economica ha gettato oltre l’80% dei Venezuelani sotto la soglia di povertà. Ad una famiglia servono cinque salari minimi per acquistare il cibo necessario a tirare avanti un mese, e infatti il 48% dei bambini soffre di malnutrizione. In altri termini, oggi in Venezuela a causa della povertà si fa la fame.
Non basta: gli ospedali pubblici cadono letteralmente a pezzi e in tutto il Paese si registra una drammatica carenza di medicinali. Ogni giorno muoiono 31 bambini al giorno a causa di infezioni banali come la diarrea, che potrebbero essere facilmente risolti con gli antibiotici.
Mentre il programma governativo di distribuzione, a prezzo politico, di generi di prima necessità si è rivelato fallimentare, il crollo delle importazioni determinato dall’inflazione ha causato l’esplosione del mercato nero. Alcuni gruppi privati legati al regime acquistano beni di consumo di ogni tipo all’estero e poi li rivendono indisturbati, corrompendo le autorità e realizzando profitti astronomici. Non c’è solo l’evidente danno per l’economia determinato dall’evasione fiscale: tali gruppi applicano gli stessi metodi, e a volte le stesse persone, dei cartelli dei narcos.
Di fatto, l’intera economia di uno Stato di 28 milioni di abitanti è gestita secondo i criteri e le modalità del mercato della droga. E ciò acuisce, a sua volta, il problema più grande del Venezuela: la sicurezza”.
Il Venezuela è sempre stato ai vertici nelle statistiche mondiali relative agli omicidi e ai rapimenti. La situazione è ulteriormente peggiorata?
“È difficile rendersi conto di cosa voglia dire vivere in Venezuela se non ci si è mai stati. Significa avere la certezza che prima o poi qualcosa succederà: non una questione di ‘se’ dunque, ma una questione di ‘quando’.
Ora, se possibile, la situazione è ancora più fuori controllo perché mancando i soldi mancano anche le forze dell’ordine, e quelle poche sono esposte alla corruzione. Spesso i poliziotti si alleano con i criminali, percependo soldi dal business dei sequestri di persona. Essere sequestrati, del resto, rappresenta per i Venezuelani un evento normale: fin da piccoli ci prepariamo all’idea e ci viene insegnato come comportarci in caso dovesse accadere”.
Davanti a una situazione che appare senza via d’uscita, come mai la comunità internazionale non interviene?
“Perché Maduro lo impedisce. Il Governo è disposto a far morire l’intero Paese piuttosto che ammettere il proprio fallimento. Ci sono stati tentativi, ma in molti casi le casse contenenti aiuti umanitari sono state bloccati alla frontiera. Se ammettessero l’esistenza di un’emergenza, ammetterebbero, davanti alla popolazione, la loro sconfitta. E questo una dittatura non può permetterselo”.
Possiamo quindi parlare di dittatura in Venezuela?
“Al momento, Maduro è alle prese con una ‘riforma’ della Costituzione che dovrebbe avvenire tra due settimane e che nelle intenzioni dovrebbe ‘pacificare il Paese’. In realtà, sarà un passo decisivo verso la messa al bando di ogni tipo di opposizione: un passo che verrà fatto nel rispetto della ‘forma’, orchestrando una serie di passaggi politici atti a mantenere una legalità e una democrazia di facciata, svuotata però di qualunque contenuto – sul modello di quanto avvenuto a Cuba.
Il punto di arrivo del Venezuela di oggi, come ribadito da numerosi osservatori internazionali, è il cosiddetto eternal government, il governo eterno sul modello castrista.
Del resto pochi dittatori sono così stupidi da presentarsi come tali agli occhi del mondo. La maggior parte delle dittature si instaurano così, un passo alla volta, ‘riforma’ dopo ‘riforma’”.
In rete, a volte si legge che “la colpa” della crisi del Venezuela sia degli Stati Uniti.
“Ogni regime ha bisogno di un nemico per esistere. Ne hanno bisogno, a volte, le democrazie, figurarsi i regimi. In Venezuela, fin dai tempi di Chavez si sono identificati gli Stati Uniti, il capitalismo, la globalizzazione… certo questi fenomeni hanno lati negativi, ma chiunque può recarsi di persona a Caracas a verificare quanto la situazione non abbia eguali. Quanto alla distribuzione della ricchezza, basta fare un paragone tra le foto della popolazione riportate dai principali media mondiali e quelle postate su Instragram dai “rich kids” venezuelani, i figli di esponenti del governo di Chavez e poi di Maduro, che conducono una vita da sogno tra feste, spiagge ed elicotteri”.
Nella strategia del ‘mantenimento della facciata’ rientra la recente scarcerazione di Leopoldo Lopez, fondatore del partito di opposizione Voluntad Popular e leader della protesta del 2014. Dopo essere stato arrestato per cospirazione nel febbraio dello stesso anno, Lopez è stato condannato a 13 anni di reclusione nonostante le proteste dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Dopo 3 anni di carcere duro, con divieto di visita per i suoi familiari, è stato trasferito agli arresti domiciliari lo scorso 8 luglio per decisione della Corte Suprema.
“Nelle intenzioni ufficiali del Governo” spiega Maria, “si tratta di un gesto di distensione alla vigilia della decisiva modifica della Costituzione. Ma la realtà è chiariamente diversa: questo è un esempio da manuale di specchietto per le allodole, coerente con la strategia madurista, un modo per sbandierare una supposta indipendenza della Corte Suprema che sarà poi chiamata a ratificare la modifica costituzionale”.
Le violazioni dei diritti umani, in Venezuela, restano intanto all’ordine del giorno. Secondo l’avvocato Alfredo Romero, Direttore Esecutivo del Foro Penal Venezolano, dall’inizio del 2017 1.366 persone sono state arrestate durante le proteste: di queste, 92 sono state uccise durante la detenzione. I detenuti in prigione per motivi esclusivamente politici sono 431.
Per avere un’idea di cosa accada agli oppositori politici una volta arrestati, basta ascoltare la storia di Mireya Vivas, una donna magrissima di mezza età il cui racconto è diventato virale in un video su Instagram. Dopo essere stata arrestata durante una protesta di piazza, Mireya è stata chiusa a chiave in uno stanzino, priva di vestiti; a quel punto le guardie hanno gettato nella stanza dei candelotti di gas lacrimogeni. Mentre lei a terra si contorceva per il dolore, le guardie sono entrate nella stanza indossando maschere anti-gas e dopo averla percossa a calci e pugni le hanno spalancato gli occhi con la forza.
Le violazioni dei diritti umani, in Venezuela, restano intanto all’ordine del giorno. Secondo l’avvocato Alfredo Romero, Direttore Esecutivo del Foro Penal Venezolano, dall’inizio del 2017 1.366 persone sono state arrestate durante le proteste: di queste, 92 sono state uccise durante la detenzione. I detenuti in prigione per motivi esclusivamente politici sono 431
“Per la comunità internazionale è molto difficile” continua Maria “rendersi conto di quanto sia grave la situazione. Maduro non controlla solo giornali e TV nazionali, ma rende la vita difficile ai reporter internazionali di muoversi liberamente nel Paese. E quando ci riescono, subentra il problema della sicurezza. Ogni giorno si leggono storie di giornalisti o video-operatori derubati, sequestrati e persino uccisi. Il modo migliore per seguire il corso degli eventi sono gli account social di fotografi e video operatori venezuelani impegnati in prima linea”.
Tra questi segnaliamo su Instragram: @braulio_jatar, @victorpinedaphoto , @Ipaniza e @caosanchez.
È a questo punto che succede una di quelle coincidenze possibili solo a New York. Tra i tanti hipsters in divisa, con baffoni a manubrio e caffe in bicchiere di plastica d’ordinanza, Maria sente un ragazzo vicino a noi parlare Venezuelano. Lo ascolta per qualche momento, e capisce che il tizio sta organizzando una spedizione di maschere anti-gas e oggetti necessari ai manifestanti a reggere l’urto della Guardia National.
Ci avviciniamo.
“Mi chiamo Alberto, ho 21 anni e vivo negli Stati Uniti da 4. Faccio parte di una rete di espatriati venezuelani che fa capo a un personaggio molto influente dell’opposizione rifugiato a Miami. Dalla Florida facciamo partire tramite aerei privati degli aiuti per i manifestanti, insieme a cibo, cassette del pronto soccorso, tutto quello che può essere utile. Si tratta, ovviamente, di un’organizzazione clandestina. Gli aerei privati sono poco controllati, c’è poca gente da corrompere insomma”.
Come vedi la situazione nel tuo Paese, quali sviluppi ti aspetti?
“Nulla di buono. Quelli che governano ora sono nazisti, ma quando cadranno – e prima o poi cadranno – non saranno sostituiti da bravi governanti. In America Latina i politici rubano: rubano in Brasile, rubano in Argentina, in Cile, non c’è niente da fare. L’unica cosa che mi auguro è che almeno il problema della sicurezza venga risolto. Dopo che mi hanno rapito ho giurato che non sarei mai più tornato in Venezuela”.
Ti hanno rapito?
“Si, ma in Venezuela è normale.”
Puoi raccontarci come andarono le cose?
“Stavo tornando a casa da scuola in macchina quando ho notato una berlina scura che mi seguiva. Subito dopo un SUV mi ha sbarrato la strada. Sono scesi alcuni uomini, pistole alla mano. La mia era un’auto blindata, quindi non mi sono spaventato, ma poi loro hanno tirato fuori le granate e allora ho dovuto aprire la portiera.
Mi hanno fatto salire dietro; ho dovuto chiamare la mia famiglia, dicendo loro che ero stato sequestrato, a quanto ammontava la somma per riavermi e dove dovevano lasciarla. Poi mi hanno bendato e hanno guidato nel traffico per 4 ore. Dopo aver incassato la somma, mi hanno scaricato nel mezzo di un’autostrada, come un cane, tenendosi la macchina”.
Interviene Maria.
“A lui è andata bene. Altre volte i rapitori, incassati i soldi, capiscono che la famiglia può essere spremuta, e continuano a chiederne altri. Altre volte incassano i soldi e poi uccidono ugualmente la persona rapita”.
“È come una lotteria” aggiunge Alberto. “Prima o poi il tuo numero viene estratto e devi solo vedere cosa ti tocca”.
I due ragazzi continuano a parlare tra di loro, confrontando le ultime indiscrezioni e dicerie arrivate da casa. Tra loro e due sfollati di guerra impegnati a scambiarsi notizie dal fronte non sembra esserci nessuna differenza. Poi Alberto saluta, e Maria lo guarda allontanarsi.
“Pensa: quante possibilità ci sono che tu incontrassi ora un italiano vittima di un agguato mafioso? Ecco, quella differenza statistica, è la differenza tra il Venezuela e un’altra nazione”.
Come si fa, in questa situazione, a continuare a vivere in Venezuela?
Chi ha la possibilità abbandona il Paese senza sapere quando e se potrà tornare. Io e mio fratello vorremmo tornare per un breve periodo in modo da rivedere i nostri genitori, ma è la mia famiglia che – pagando un prezzo interiore altissimo – ce lo proibisce.
Chi invece resta si sforza di continuare a vivere. Come dice mio padre, anche durante la Seconda Mondiale la gente usciva di casa, andava al bar, si innamorava. Cercava, come poteva, di divertirsi. La vita, anche se tutto intorno crolla, deve andare avanti. Siempre. I Hate Milano
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