Come riconoscere il filosofo che c’è nel tuo gatto.

Zampe di velluto

Ha un senso scrivere un libro di filosofia del gatto o di filosofia sul gatto?

Insomma, che c’azzeccano Platone, Aristotele, Schopenhauer e Kant con il gatto? Nulla, se si vogliono applicare al comportamento felino le loro elucubrazioni sulla psiche umana, tutto, se, in accordo con Platone, la filosofia è sorpresa e meraviglia. E quale animale domestico (quasi) è più meraviglioso e sorprendente del gatto? Non si adonti con l’autore (e con me che ne scrivo), l’amante dei cani che dovesse imbattersi in questo libro di Salvatore Patriarca che porta un titolo apparentemente impegnativo: La filosofia del gatto. Non si giri da un’altra parte, strappato allo scaffale dallo strattone del suo cane. Questa potrebbe essere la «chiamata», la via di Damasco, la conversione. Dopo avere letto il libro di Patriarca, il gatto non sarà più, per il cinofilo, quell’animale egoista e menefreghista che non viene sul divano quando lo si chiama, che non mangia quando dovrebbe, che improvvisamente sparisce e mette in affanno una famiglia disperata perché è scappato: per poi ricomparire magicamente alla fine di estenuanti ricerche, senza un pelo scomposto, gli occhi ancora socchiusi per il pisolo, a chiedere: «Beh, cos’è tutto ‘sto casino. Per una pennichella nel cassetto dell’armadio, via!». Sono sicuro che, dopo aver letto dell’estetica, dell’etica, del tempo e dello spazio, dei vizi e delle virtù, qualcuno sarà folgorato, come Paolo di Tarso e darà la forza a un altro amante dei cani, di resistere allo strappo di un guinzaglio, davanti allo scaffale della libreria.
La Filosofia del gatto (conosci il tuo gatto per conoscere meglio te stesso) è però principalmente un libro per chi i gatti li ama e sono in molti.

Fin dall’antichità, questo sinuoso e affascinante erede di leopardi e giaguari, ha soggiogato, con i suoi occhi iridescenti, proprio l’animo dei più sensibili: i filosofi e i poeti. «Qualcuno» recita un vecchio adagio «ci ha dato il gatto perché potessimo accarezzare la tigre con un dito». Scrive l’autore nella prefazione che «per chi lo ama, il gatto è come un’abitudine: si cambia città, si cambia casa, si cambia famiglia, ma quelle quattro zampe ci saranno sempre”. Più che a Paolo e Francesca la famosa frase del sommo Poeta si attaglia al gatto, quell’amor ch’a nullo amato amar perdona, riflette perfettamente l’animo di chi trova un gattino per strada o di chi ha appena perso l’affetto del suo vecchio peloso. La casa va riempita di altre fusa e presto, perché, come scriveva Mark Twain «una casa senza un gatto, senza un gatto ben nutrito, coccolato e giustamente venerato, può essere una casa perfetta, ma come potrebbe meritarne il titolo?». Ed eccolo allora esplorare la nuova casa cautamente, da animale timoroso, e curioso, qual è. Eccolo avanzare baldanzoso verso il balcone per la sua diuturna caccia a uccelli e lucertole, per poi battere in veloce ritirata, ventre a terra e orecchie basse, al passaggio rumoroso del grosso uccello di metallo che rotea le sue pale rumorose, passando sulla casa. Eccolo giocare con lo spazio e il tempo, suoi eterni amici, cui è legato da un filo magico che si perde nel passato e riaffiora nel futuro. Per gran parte della vita il gatto dorme e per l’altra riposa. Quando cammina, lo fa lentamente, in modo austero e aristocratico, senza curarsi dei pochi centimetri che misura il cordolo sfiorato da cuscinetti plantari silenziosi, senza indagare, come farebbe un povero plebeo, quei trenta metri di abisso che si aprono di lato. Testa alta, orecchie come bussole in perenne assestamento, lui avanza evitando gli oggetti, senza degnarli di uno sguardo, quasi fossero futili intoppi di percorso sul nastro delle sue tante vite. Incede e ama farsi narcisisticamente contemplare, «come quell’enormi sfingi distese per l’eternità in nobile posa» (Baudelaire).

OSCAR GRAZIOLI (Il Giornale)

 

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