Sotto la Madonnina le «colonie feline» sono tra le più numerose d’Italia. Ma c’è chi vorrebbe sfrattarle. Braccio di ferro in Galleria tra una storica gattara e un hotel superlusso .
I più famosi passeggiano tra le merlate e i fossati del Castello Sforzesco da tempo immemore, sono un’attrazione turistica, quando gli ambulanti hanno fiutato il business hanno stampato i calendari coi quaranta gatti che vivono sotto la torre del Filarete. Un’altra colonia felina è finita sotto i riflettori pochi mesi fa. In un palazzo popolare di via Gola, la strada dello spaccio milanese a due passi dalla movida dei Navigli, invece di sgomberare gli occupanti abusivi era finita sotto sfratto la casetta di legno costruita per i mici randagi da un gattaro-falegname. È diventato un caso politico e la tana è rimasta al suo posto. A Milano si contano quasi 600 colonie feline, circa diecimila gatti che non sono abbandonati a sé stessi ma censiti dal Comune e assegnati alle cure dei volontari, che mettono a disposizione tempo e anche soldi. Non percepiscono compensi e devono fornire regolarmente cibo alle colonie, le collette alimentari delle associazioni o del Comune sono un aiutino. Niente è (o dovrebbe) essere lasciato al caso. Nel 2005 l’allora sindaco Gabriele Albertini fece approvare il primo Regolamento per la tutela degli animali del Comune, dopo di lui Letizia Moratti istituì il Garante degli Animali, che mise in moto un meccanismo per proteggere i gatti selvatici ed evitare una crescita incontrollata: il Comune ha firmato le convenzioni con quattro associazioni animaliste che catturano i nuovi randagi, li sterilizzano e dopo 5 giorni di degenza li riportano nel vecchio ambiente, affidandoli alle cure dei volontari. Tutto bene. D’altra parte è la stessa legge regionale sulla Tutela degli animali che all’articolo 33 garantisce che le colonie abbiano il diritto alle cure da parte dell’azienda sanitaria locale e che non debbano «mai essere spostate dall’habitat originario a meno che il fatto non si renda necessario per una loro tutela o per gravi motivazioni di ordine sanitario». É il diritto al territorio, rispettato anche dai ospedali milanesi come Niguarda, Sacco o Golgi Redaelli o dalle scuole che hanno adottato i gruppi. Rischiano uno sfratto forzato invece i 15-20 gatti, tutti neri, che da decenni osservano Milano da un punto eccezionale, il tetto della Galleria Vittorio Emanuele. Da dieci anni si prende cura di loro la volontaria Monica, ma anche la sua pazienza è al limite i problemi sono iniziati due anni fa, quando gli stessi proprietari dell’hotel a 7 stelle in Galleria hanno aperto anche un locale-ristorante, invadendo il terrazzino affacciato su piazza Duomo 21 che era da sempre la casa della colonia. Comune e nuovi gestori avevano concordato la ricerca di nuovo spazio ma da allora nulla è stato fatto. Durante la ristrutturazione i felini spaventati dai rumori si erano sparpagliati ovunque, alcuni sono caduti dal tetto, altri sono rimasti intrappolati nella grondaia, chiusa dagli operai senza avvisare la gattara. Il vecchio habitat (il terrazzino) è stato occupato quasi interamente da un supporto metallico, per gli impianti di condizionamento dell’albergo e dei vari ristoranti, e da due anni nessuno procede più alla cattura per la sterilizzazione, quindi i gatti continuano a riprodursi ed «è diventato impossibile fare un censimento, visto che si sono dispersi». Alcuni si sono rifugiati in un sottotetto pieno di sporcizia, col rischio di ferirsi e contrarre malattie. La volontaria durante l’estate ha scritto al Comune per chiedere collaborazione, un sos che ha mosso per ora un sopralluogo tecnico. Il gestore del locale modaiolo, che è proprietario anche di un’altra pizzeria in Galleria battezzata proprio «i 12 gatti», aveva garantito aiuto economico, «un tetto senza gatti è anonimo» disse nel 2015. Ma alle parole non sono seguiti i fatti.Gianluca Comazzi,capogruppo di Fi e primo Garante degli animali ai tempi della Moratti, avverte: «I gatti della Galleria non si toccano, vivono lì da decenni e sono un patrimonio e la memoria storica della città».
Chiara Campo (Il Giornale)
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