Aveva 88 anni ed era stato uno degli interpreti della saga. Fu protagonista anche di «Signore e signori» di Pietro Germi e di molte pellicole della commedia all’italiana
Milano 5 Settembre – Se ne è andato anche l’ultimo amico nostro. A 88 anni è morto Gastone Moschin, l’attore che è entrato nel nostro immaginario (comico e amaro) collettivo con l’architetto Rambaldo Melandri, compagno di zingarate con i suoi inseparabili quattro amici. Era nato l’8 giugno 1929 a San Giovanni Lupatoto (Verona) e si è spento nel pomeriggio di lunedì nell’Ospedale Santa Maria di Terni dove era ricoverato da qualche giorno. A dare l’annuncio su Facebook è stata la figlia Emanuela: «Addio Papà… per me eri tutto».
Dopo gli esordi come attore di teatro (a Genova e Milano), Gastone Moschin raggiunse il successo come interprete della commedia all’italiana, diretto da registi come Marco Ferreri, Damiano Damiani, Nanni Loy, Luigi Zampa e Pietro Germi che gli cucì un ruolo perfetto nel corale «Signore & signori» (1965), una satira feroce sull’ipocrisia della provincia italiana nella stagione del boom economico.
Attore poliedrico e trasformista, con quella faccia da uomo medio che spesso si trasformava in un punto interrogativo, Moschin alternò i generi, passando dagli spaghetti western di Corbucci («Gli specialisti», 1969) al dramma in cui Bertolucci rilesse il romanzo di Moravia («Il conformista», 1970). Ma è la commedia all’italiana a dargli la grandissima popolarità, a far diventare «il» Melandri (l’articolo è d’obbligo) un personaggio nazionalpopolare, riconosciuto, citato e imitato ancora oggi a distanza di oltre 40 anni.
Il progetto di «Amici miei» (1975) apparteneva a Germi che morì poco prima dell’inizio delle riprese, lasciando la regia a Monicelli. Ma il vuoto rimase, il lutto aleggiava, la vita riassunto di commedia e tragedia. Lo aveva raccontato lo stesso Moschin in un’intervista: «È un film che fa ridere, ma non è comico. È velato dalla malinconia della mancanza di Germi, che a volte pervadeva il set. La malinconia della domenica sera in attesa del lunedì, come nella scena delle giostre, dove facciamo i conti con il ritorno, il giorno successivo, alla vita reale». Fu un successo strepitoso e inaspettato quello dei cinque indivisibili amici fiorentini, intelligenti e cialtroni allo stesso tempo, ritratto di molti italiani: il conte Mascetti (il nobile decaduto interpretato da Tognazzi), il Perozzi (Philippe Noiret, giornalista più attento alle donne che alle notizie), il Sassaroli (uno strepitoso Adolfo Celi, brillante e annoiato chirurgo), il Necchi (Duilio Del Prete) che gestisce il bar dove i 5 si incontrano. E poi lui, il Melandri, architetto con poche aspirazioni, se non quella di trovare finalmente una donna, per cui sarebbe stato anche disposto ad abbandonare i suoi amici. Ma non lo farà mai.
Gli italiani corsero in massa nelle sale: oltre 10 milioni di spettatori con due sequel, nel 1982 (sempre Monicelli) e poi nel 1985 (quando la regia passò a Nanni Loy). «E chi poteva immaginare che il film sarebbe diventato una specie di mito? — ricordava ancora Moschin —. Credo sia stato possibile per la freschezza della sceneggiatura, la felicità della scrittura che prendeva spunto da episodi accaduti davvero o che si raccontavano nei bar. Erano anni diversi, era un’Italia nella quale si poteva ancora ridere». La situazione poi è cambiata: «L’Italia non mi sembra più un Paese per le zingarate mentre di supercazzole ne vedo ancora tante, ma quelle ci sono sempre state». (Corriere)
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