Milano 11 Settembre – Quanto ha giovato a Francesco Hayez essere l’autore del più celebre quadro italiano dopo la Gioconda? E quanti, vedendolo ed emozionandosi, e identificandosi, sanno che il Bacio è opera sua? La fortuna dell’opera è nella felicità dell’invenzione. Lo spazio semplice, essenziale, è quello dell’androne di un castello, il passaggio da un piano all’altro.
Lei è forse scesa dalle sue stanze e lui l’ha raggiunta per un congedo prima di partire. C’è protezione, ansia, turbamento, nell’abbraccio dell’uomo che sembra rassicurare l’amata del suo ritorno, per un’impresa necessaria alla virtù dell’uomo. Lo spiega bene Giuseppe Nifosì: «In questo abbraccio e in questo bacio, l’osservatore presagisce il dolore per una partenza imminente e inevitabile». Siamo nel 1859, anno di ingresso di Vittorio Emanuele II a Milano, e della seconda guerra di indipendenza. Un altra versione è del 1861. Il dipinto, infatti, assurge a simbolo degli ideali romantici, nazionalisti e patriottici del Risorgimento; tale interpretazione è avallata da diversi elementi iconografici, in primis dall’incerta collocazione spazio-temporale, che fa sì che l’opera non sia vincolata ad un’epoca passata e che diventi un simbolo universale dell’amor di patria. Anche le posizioni dei due amanti rimandano alla situazione dell’addio: l’uomo ha un ampio mantello, e il piede poggiato sul gradino, come se fosse in procinto di partire, mentre la donna stringe le spalle dell’amato con forza, quasi non volesse interrompere quest’estremo saluto, conscia dei pericoli che l’amato vivrà a causa del suo patriottismo. E ancora, anche il pugnale nascosto nel mantello, in segno di ribellione contro l’invasore asburgico, e la datazione del dipinto (1859, anno dell’ingresso di Vittorio Emanuele II a Milano e della seconda guerra d’indipendenza), rimandano per via simbolica all’impresa unitaria. Troppi vincoli, emotivi, allegorici, gravano su questo quadro è lo fanno vivere quasi a prescindere dall’autore.
Poi c’è Hayez, il grande artista nato a Venezia nell’imminenza della sua caduta. In equilibrio tra la fine di una grande civiltà e l’inizio di una nuova non più legata alla tradizione veneziana ma propriamente italiana, e Vittorio Sgarbi, pittura, articolata in due fasi: quella neoclassica e quella romantica. Si aggiunga che, con un procedimento autocelebrativo, benché indotto, Hayez si racconta e si storicizza in un libro essenziale: Le mie memorie, dettate tra il 1869 e il 1875 a Giuseppina Negroni Prati Morosini, con descrizioni, aneddoti e osservazioni attraverso le quali procede a una costruzione della propria immagine prescindendo dalla letteratura critica. Di famiglia povera, Hayez fu affidato bambino, a Milano, alla zia materna, sposata a Francesco Binasco, antiquario e cultore d’arte. Fu Binasco a indirizzarlo alla pittura con una prevalente attenzione per il restauro, e Hayez si affidò alla lezione di Francesco Magiotto, veneziano vicino al Piazzetta, che aprì alla curiosità degli altri grandi maestri veneziani, Gregorio Lazzarini, Sebastiano Ricci e Giovanni Battista Tiepolo. Hayez continuerà a frequentare Venezia studiando all’accademia di belle arti con Lattanzio Querena. A Venezia, sotto il nuovo regno di Italia napoleonico, troverà a proteggerlo l’amico di Canova, il ferrarese Leopoldo Cicognara, presidente dell’Accademia a partire dal 1808. Tra i suoi maestri, alla cattedra di pittura e di storia, vi fu Teodoro Matteini.
Ma la sua fortuna inizia nel 1809, con la borsa di studio triennale a Roma, dove arriva accompagnato dal collega Odorico Politi e dalle lettere di raccomandazione del Cicognara a Canova. Con ogni probabilità, la conoscenza diretta del Canova (e del suo collaboratore Antonio D’Este) contribuì ad aprirgli le porte delle maggiori collezioni romane: ai Musei Capitolini e al Museo Chiaramonti poté studiare la statuaria greco-romana. Per il tramite di Vincenzo Camuccini, inoltre, l’artista ottenne il permesso di recarsi anche alle Stanze Vaticane, dove poté misurarsi direttamente con Raffaello Sanzio. A quest’intensa attività di perfezionamento artistico Hayez alternò i piaceri e le frequentazioni favoriti dalla vita di città, ricca di occasioni e di suggestioni culturali. Fra gli amici romani vi sono le più eminenti personalità artistiche del tempo: Pelagio Palagi, Tommaso Minardi, Dominique Ingres, Bartolomeo Pinelli e Friedrich Overbeck, espressamente citati nelle Memorie.
A questo punto della sua formazione, sotto la protezione di Canova, Hayez riprende la sua attività e, nell’estate del 1813, invia all’Accademia di Venezia un Rinaldo e Armida che gli meritò una nuova borsa di studio, riuscendo a unire la poetica classica di Canova con la tradizione veneta di Tiziano e Veronese. Dopo un intermezzo veneziano, tra il 1818 e il 1821, come decoratore a fianco di Giuseppe Borsato, Hayez si stabilisce a Milano succedendo ad Andrea Appiani e Giuseppe Bossi. Grazie all’amicizia di Pelagio Palagi Hayez entra nell’ambiente romantico di Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi e Ermes Visconti, ottenendo grande successo con il dipinto Pietro Rossi prigioniero degli scaligeri, esposto a Brera nel 1820. Con quel dipinto inizia la sua fortuna, dai Vespri siciliani al Conte di Carmagnola, nei quali egli si manifesta pittore impegnato in temi storici che adombrano gli ideali risorgimentali.
Il pittore discute con il Cicognara che avrebbe voluto il Carmagnola a Venezia e chiede il sostegno di Canova. Con la morte del grande scultore, Hayez si trasferisce definitivamente a Milano e matura la sua poetica romantica, interpretando testi letterari. Ecco soggetti shakespeariani e schilleriani, come L’ultimo bacio di Giulietta e Romeo, Fiesco si congeda dalla moglie, Maria Stuarda al patibolo. Ai soggetti storico-letterari, Hayez affiancò una efficacissima produzione ritrattistica: memorabile l’autoritratto con un gruppo di amici, Pelagi, Migliara, Molteni e Grossi, e anche il ritratto di Carolina Zucchi, con la quale ebbe una relazione documentata in alcuni audaci disegni erotici.
Sono anni di commissioni pubbliche, come gli affreschi della volta del salone delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano. Irrequieto, lavora anche a Vienna e a Monaco, dove ritrova gli amici nazareni conosciuti in gioventù a Roma. Tornato a Milano conclude l’allegoria per l’incoronazione dell’imperatore Ferdinando I d’Austria in Palazzo Reale. Il gradimento dell’imperatore gli fa ottenere l’incarico per altri dipinti storico-letterari come Vittor Pisani liberato dal carcere e L’ultimo incontro di Jacopo Foscari con la propria famiglia. Ma, quando dipinge libero da vincoli narrativi, realizza capolavori di formidabile intensità spirituale e sentimentale, nella più alta espressione di una poetica romantica. Penso a soggetti più volte ripetuti come la Malinconia in cui si concentra attingendo un valore assoluto paragonabile a quello di grandi capolavori dei maestri del Rinascimento, come la Flora di Tiziano e la Muta di Raffaello. La concezione estetica di Hayez si pone tra Manzoni e Verdi, in un lungo percorso che matura con L’incontro di Giacobbe Ed Esaù del 1844, e con La sete dei crociati sotto Gerusalemme, dipinto in quasi vent’anni. Questo non impedisce ad Hayez di coltivare la vena ritrattistica, con il suo Alessandro Manzoni e il suo Giangiacomo Poldi Pezzoli. Nel 1850, dopo la morte di Luigi Sabatelli, diviene titolare della cattedra di pittura dell’Accademia di Brera. Nel 1860 è nominato professore onorario dell’Accademia di Bologna e assume la presidenza di quella di Milano.
Sono gli anni della maturità e della sublimazione del Bacio, opera così assoluta che, come abbiamo osservato, sembra prescindere dall’autore. Negli ultimi anni, dopo l’unità d’Italia, pur continuando a dipingere soggetti storici come La distruzione del tempio di Gerusalemme e il Marin Faliero, dipinge i suoi ritratti (e autoritratti) più belli e più veri, come quello di Gioacchino Rossini e di Massimo D’Azeglio. Quella pittura smaltata, viva, vibrante nei soggetti storici, si candida a diventare pittura di tocco, per rappresentare la carne, l’alito di un personaggio, fino a cogliere una sconvolgente verità, umana, soltanto umana. Lo si vede nel Ritratto dell’ingegner Clerici. Hayez va oltre la forma, oltre la storia, oltre i simboli, dipinge la vita. La pura vita.
Vittorio Sgarbi (Il Giornale)
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