Senza un cambio di rotta, l’ottimismo della classe dirigente sulla crescita rischia solo di creare rabbia soprattutto tra le generazioni più colpite dal declino
Milano 13 Novembre – Nonostante i buoni risultati economici di questi ultimi anni, in Italia una famiglia su due non riesce ad accedere a un livello di benessere sufficiente per non essere costretta a rinunce nelle cure mediche, nello studio, nel numero di figli. Viceversa, solo una minoranza (il 3o% del totale) ha una situazione economica così solida da potersi pagare i servizi che ormai sono in larga parte privatizzati, accantonando anche qualche risparmio. Sono i risultati di una ricerca sullo stato del welfare italiano appena pubblicata e presentata in questi giorni alla Camera dei Deputati (Osservatorio sul bilancio di welfare delle famiglie italiane). Pensionati che vivacchiano con una pensione che a stento raggiunge la soglia della decenza; famiglie monogenitoriali che si arrabattano per tenere insieme i pezzi di una vita complicata; nuclei famigliari che si sono arrischiati ad avere più di due figli e ne sopportano i costi; giovani (o meno giovani, specie se donne) che non riescono a uscire da una condizione di precarietà. Insomma la platea degli scontenti in Italia (e non solo) non accenna a ridursi. Confermando ciò che sapevamo già: l’erosione del ceto medio in questi anni prosegue implacabile.
Insieme a questa prima considerazione, c’è un secondo punto messo in luce dalla ricerca. L’indebolimento della famiglia e delle sue reti di relazione (e di protezione) ha ormai cambiato il panorama sociale del nostro Paese: ben il 40% dei nuclei è oggi costituito da monogenitori, vedovi, separati, single. Una schiera di individui soli che devono gestire autonomamente i problemi che la vita prima o poi riserva a tutti. Con conseguenze rilevanti sul profilo economico e demografico.
C’è da chiedersi se la politica riesca ad avere una percezione corretta di questa realtà e delle reali condizioni di vita della gran parte della popolazione. Per molti aspetti, si direbbe di no. Almeno a giudicare dalle reiterate dichiarazioni di ottimismo che in questi mesi hanno salutato il ritorno ad un quadro macroeconomico positivo. Sentire le dichiarazioni dei politici che insistono nel dire che le cose vanno meglio non fa altro che irritare chi invece constata che la propria condizione resta grama.
Al fondo c’è la fatica a riconoscere che il tempo è cambiato. Oggi le difficoltà individuali — non più anestetizzate dall’immaginario di una crescita illimitata — stagnano nel vissuto quotidiano, alimentando quel risentimento che affiora ormai senza più alcun freno inibitore.
Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che, nelle nuove condizioni, la ripresa del Pil porta, solo lentamente, benefici limitati. Di fronte al dato evidente che il lavoro che si viene a creare è più precario, che la ricchezza si concentra sempre più nelle mani di pochi oligopolisti e che le grandi imprese e i ricchi possono facilmente evitare di pagare le tasse (come dimostrano ancora una volta le notizie sui paradisi fiscali di questi giorni), il popolo chiede di essere protetto. Semplicemente perché non crede più alla favola che tutto sia destinato ad aggiustarsi. Per questo la questione dei migranti diventa così esplosiva. Di fronte ai problemi che assillano la vita quotidiana, almeno c’è qualcuno contro cui prendersela e su cui scaricare la rabbia che si ha in corpo. Di fronte a tutto questo, il ceto politico (al di là delle cose buone che pure in questi anni sono state fatte) non riesce a dettare l’agenda. Incapace di capire che la crisi della globalizzazione apre un enorme spazio politico che, se non sarà occupato, si riempirà da solo. Il problema è che abbiamo accumulato un grave ritardo e che, nonostante le tante eccellenze di cui il Paese per fortuna ancora dispone, non siamo ancora riusciti a invertire il declino ben visibile se si guardano le ultime 3 generazioni: quella del dopoguerra che era riuscita a creare ricchezza; quella del baby boom che l’ha consumata; e infine quella dei Millennials che rischiano di essere sacrificati per le colpe dei padri.
Nonostante i passi compiuti, l’Italia continua a muoversi su un sentiero molto stretto. Con il nostro livello di debito, basta uno spiffero perché un raffreddore si trasformi in polmonite. E d’altra parte, la situazione sociale è, come constatato, tutt’altro che risolta.
In questa situazione è giusto chiedere ai partiti che si apprestano a cominciare una lunga campagna elettorale di dire chiaramente come pensano di risolvere il rebus che abbiamo davanti: interrompere il decalage intergenerazionale riattivando la crescita senza far finta di non sapere che ciò non basterà per placare il grido di rabbia che sale da ampie parti del corpo sociale; soprattutto se non si metterà mano a quelle riforme strutturali che il Paese aspetta da anni (e che, cambiando assetti consolidati, sono sempre, in certa misura, dolorose). Sarebbe già tantissimo avere il coraggio di dire la verità al Paese. Forse un atto di parresia potrebbe coagulare le tante forze positive e costruttive che ancora esistono nel Paese.
Mauro Magatti (Corriere)
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