Milano 15 Novembre – L’aggiornamento delle stime economiche italiane della Commissione Europea rivela impietosamente il problema che oggi non sembra più preoccupare la politica italiana. Cioè la persistente debolezza strutturale della nostra ripresa, e le sue conseguenze sul percorso di rientro della finanza pubblica e sull’occupazione. Della produttività comparata, che perdiamo complessivamente da metà anni Novanta anche se quella della manifattura va meglio, neanche a parlarne: questo tema non c’è proprio, nell’agenda pubblica italiana. E invece dovrebbe essere prioritario: perché in un Paese a demografia calante e con impieghi bancari alle imprese ancora con segno negativo rispetto al pre-crisi, la produttività dovrebbe essere considerata una delle molle prioritarie per rafforzare la componente interna del Pil, a oggi trainato soprattutto dall’export, che in questo 2017 si avvia a nuovi record.
Il problema è politico, dunque, al di là delle divergenze di modello previsivo che restano significative tra Bruxelles e Roma. La Ue si unisce alla stima di un +1,5% di PIL italiano in questo 2017, rispetto all1,6% di Francia e Grecia, al 2,2% tedesco e al 3,1% della Spagna (vedremo quanto frenato dalla vicenda catalana). Ma negli anni successivi per Bruxelles perderemo colpi: la differenza a nostro svantaggio rispetto al tasso di crescita medio dell’eurozona passerà da -0,7% nel 2017, a -0,8% nel 2018, a -0,9% nel 2019. La disoccupazione italiana scenderà dall’11,5% di quest’anno solo al 10,5% nel 2019. E il deficit strutturale avrà un sentiero ben diverso da quello previsto da Padoan: dal 2,1% di PIL quest’anno scenderà solo al 2% nel 2018, per risalire al 2,4% nel 2019.
Tanto per cominciare, significa che Bruxelles contesta a Padoan di correggere il deficit strutturale con la legge di bilancio per l’anno prossimo non dello 0,3% di Pil come concordato quest’estate (in teoria l’impegno era il doppio), ma solo dello 0,1%: il che significa che ai saldi di bilancio della finanziaria mancano 3,4 miliardi. Padoan ha già detto che non è d’accordo, perché le stime di Bruxelles sarebbero troppo pessimistiche. Padoan sa soprattutto che in questo parlamento prossimo allo scioglimento la legge di bilancio che Bruxelles critica (e i cui saldi si devono infatti a largo ottimismo sulla cresciuta futura e su praticamente nessun effetto sul costo del debito dalla chiusura del Qe della Bce, che grazie a Draghi in questi anni ne ha quasi azzerato il rischio sovrano) è in realtà considerata troppo restrittiva. E sa che al Senato, dove la maggioranza senza fuoriusciti dal Pd balla, la legge di bilancio alla fine potrebbe peggiorare nei saldi, non certo migliorare. Per effetto delle richieste di sfondamento del tetto automatico di innalzamento dell’età pensionabile nel 2019, e dell’estensione immediata dei lavori usuranti per andare in pensione a 61 anni e mezzo o 63 e mezzo, più le eventuali richieste di MdP e sinistra sul superticket sanitario e potenziamento ulteriore dei fondi destinati alla povertà. Con assai poco spazio all’inventiva di nuove entrate, visto che tra estensione (orrenda) della rottamazione delle cartelle, 2 miliardi aggiuntivi dall’annullamento dell’Iri, minori compensazioni fiscali e nuovi obblighi “cosiddetti” antievasione, già siamo a 7,1 miliardi di entrate aggiuntive nel 2018. Non è un caso che nelle audizioni di Bankitalia come nell’analisi dell’Ufficio Parlamentare di bilancio siano fioccate le critiche, su questo.
Vedremo più avanti che cosa dirà Bruxelles. Ma la questione vera è un’altra. Semplicemente, oggi nessuno dei tre poli politici italiani si riconosce più nelle regole europee di graduale conseguimento del pareggio strutturale di bilancio. E in campagna elettorale ognuno declinerà promesse arrembanti, in vista di tale obiettivo. Salvini è ancorato all’idea di ritrattare tutti gli impegni europei di finanza pubblica da Maastricht in poi, e se non fosse possibile di chiedere in alternativa un percorso contrattato per l’uscita a medio termine dall’euro. Berlusconi è più prudente, non cita mai revisioni dei Trattati, ma la sua proposta di moneta fiscale parallela – già bocciata dalla Bce – serve a tenere aperto il rapporto con la Lega, in vista dell’alleanza elettorale nei collegi uninominali. Il Pd renziano chiede il recesso dal Fiscal Compact e il ritorno a Maastricht (gli sfugge che il Trattato di Maastricht è molto più rigido sul rientro del debito pubblico di quanto non sia il Fiscal Compact, ma questi sono considerati evidentemente dettagli che sfuggono agli elettori) annunciando che all’Italia servono 5 anni di deficit pubblico al 2,9% del Pil, cioè 50 miliardi di euro di maggior deficit ogni anno. E se queste sono le posizioni di destra e sinistra, difficile immaginare che gli europeisti ligi alle regole sul deficit possano essere i Cinque Stelle.
Che linea terrà dunque il governo che nascerà dopo le prossime elezioni politiche? Bella domanda: nessuno può dirlo. Grazie alla legge elettorale Rosato, congegnata apposta da Berlusconi e Renzi per impedire a chiunque di ottenere maggioritariamente una maggioranza coesa scelta alle urne dagli elettori, l’Italia è riuscita a rendersi di nuovo a rischio stabilità, malgrado la ripresa economica. Nessuno è certamente più disposto, un domani, a risostenere un governo tecnico dopo l’esperienza di Monti. Ma, per come si preannuncia la campagna elettorale dei leader, potrebbe nascere un governo che a quel punto andrebbe a uno scontro frontale con l’Europa su deficit e debito pubblico, se non sull’euro stesso. Non potendo certo contare, a quel punto, sul sostegno di Francia e Germania, i due Paesi che a cominciare da questa fine anno disegneranno il percorso a tappe per la nascita di una nuova Europa a cerchi concentrici di cooperazioni più o meno rafforzate. Le previsioni non troppo ottimistiche di Bruxelles iniziano a incorporare un nuovo potenziale rischio-Italia. Questa è l’amara verità. Bisogna solo sperare a questo punto che i leader politici recitino in campagna elettorale, per poi tornare successivamente a qualche sprazzo di maggior realismo. Ma si direbbe improbabile, viste le necessità di accrescimento del consenso che hanno, per ragioni diverse, sia Renzi sia Berlusconi.
Oscar Giannino (L’Intraprendente)
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