Milano 20 Novembre – Bambini, minori poveri, esclusi da quella che comunemente viene definita vita normale. Con un’amministrazione che dai tempi di Pisapia ha scoperto l’esistenza della inclusione sociale, ma solo per gli immigrati. Poveri inconsapevoli, che non conoscono altri orizzonti se non quelli del quartiere, che non sanno, che non possono curarsi per mancanza di soldi. La loro è, soprattutto, una malattia che si chiama povertà. Ed è un grido di denuncia inascoltato nei confronti di un Majorino insensibile, promotore a parole di politiche fumose e inconcludenti. Un esauriente reportage di Giampiero Rossi sul Corriere restituisce le contraddizioni di un pezzo di Milano in cui il tempo sembra essersi fermato al dopoguerra. Scrive “Persino una gita in Duomo è un’esperienza forte: molti ragazzini non erano mai usciti dal loro quartiere» Tra le otto del mattino e le quattro del pomeriggio — mezz’ora più, mezz’ora meno — le giornate dei bambini si assomigliano tutte, a prescindere dall’ambiente familiare e sociale di provenienza: scuola e doposcuola. Ma per molti ragazzini che crescono nei caseggiati popolari di un quartiere vivace e fragile come il Giambellino, prima e dopo la vita è molto diversa da quella di tanti coetanei. Il loro orizzonte è punteggiato da divani rotti e rifiuti d’ogni sorta e dimensione abbandonati lungo i marciapiedi e da cortili in cui, accanto all’immancabile statuetta della Madonna, sono parcheggiate file di passeggini che a colpo d’occhio devono aver già portato a spasso generazioni di pargoli. Le condizioni possono essere più o meno pesanti anche solo per un capriccio della sorte e della burocrazia: se ai tuoi genitori viene assegnato un alloggio in un palazzo «nuovo» al civico 143 di via Giambellino i tuoi pomeriggi in cortile saranno molto meno squallidi di quelli dei dirimpettai del diroccato 146/A. Secondo lo studio della Fondazione Cariplo è proprio nella fascia periferica Sud-Ovest che va dal Lorenteggio al Gratosoglio che vivono gli anni cruciali della loro esistenza oltre 1.600 dei quasi ventimila minori poveri di Milano. I loro genitori, in molti casi, sono costretti a rimanere aggrappati a cinquemila euro per tirare a campare per un anno, Padri che si arrangiano con «lavoretti» discontinui di manovalanza, madri che fanno le acrobazie come badanti o donne delle pulizie, figli ristretti in un mondo fatto di esclusione e di rinunce. Persino inconsapevoli, perché non sanno nemmeno loro che cosa ci sia fuori dal perimetro urbano e umano in cui si aggirano. «Una volta abbiamo organizzato una banalissima gita in centro e abbiamo mangiato un gelato passeggiando in piazza del Duomo — racconta Daniela Usai, che coordina le attività della cooperativa Spazio aperto servizi — e per quei ragazzini è stata un’esperienza forte, molti di loro non avevano mai visto Milano al di fuori del quartiere, e così anche le loro madri. Eppure il 14 da qui va dritto in centro». E allora anche una castagnata tra i boschi o un pomeriggio in piscina diventano occasioni memorabili. Oppure il dizionario «regalato dal prete» diventa uno strumento prezioso e insperato per chi non può chiedere aiuto a casa per fare i compiti in italiano.«Lavorare con le generazioni più giovani significa avere attenzione per i milanesi di domani e nello stesso tempo ci consente di stabilire connessioni con quelli di oggi — sottolinea Daniela Usai — e la coesione sociale diventa strumento di relazioni che costituiscono forme di presidio anche per la sicurezza». Un punto di riferimento universale è l’attivissima parrocchia del Santo Curato d’Ars, dove c’è un frequentatissimo doposcuola (ma nella zona ce ne sono molti altri): «Quali sono le rinunce di questi ragazzi? Le faccio un esempio — racconta il parroco don Renzo Marnati —: quando abbiamo portato qui un dentista per dare un’occhiata ai bambini ha detto che ci sarebbe da far lavorare a tempo pieno un esercito di dentisti».
Olga Molinari