Nabucco, l’epica storia e la discussa rappresentazione alla Scala

Cultura e spettacolo

Milano 22 novembre – Dopo il felice esito dell’opera Oberto, conte di S. Bonifacio (libretto di Antonio Piazza) rappresentato alla Scala nel 1839, Giuseppe Verdi andò incontro ad un periodo infelice e di grande sconforto, non solo per la sfavorevole accoglienza da parte del pubblico scaligero della successiva opera comica Un giorno di regno (libretto di Felice Romani), ma soprattutto per la morte della moglie e dei due figlioletti. In preda a tale grave crisi di depressione, il compositore decise di lasciare Milano e di tornare a Busseto, vivendo un tormento di incertezza per il futuro; se continuare o no a fare il compositore.

            Solo la tenacia del suo impresario Bartolomeo Merelli riuscì a convincerlo ad accettare di comporre la musica per una nuova opera:  Nabuccodonosor, su libretto di Temistocle Solera.  Dopo molta insistenza egli accettò. Rappresentata alla Scala il 9 marzo del 1842, l’opera ebbe un esito trionfale che, insieme a quello dell’anno successivo (I Lombardi alla prima crociata, su libretto ancora di Solera) decise  in maniera già definitiva – come sostengono i critici musicali – della carriera di Verdi operista.          Nonostante il linguaggio ancora scarno, quei successi furono dovuti soprattutto al manifesto ed efficace senso drammatico che Verdi riuscì a far vivere  in entrambe le opere.

            In particolare, nel Nabucco (come l’opera venne chiamata dopo una esecuzione fatta a Corfù nel 1844), Verdi, con grande capacità, riuscì a piegare il suo idioma musicale all’essenzialità dell’effetto drammatico, scrivendo pagine intime e struggenti che ottennero subito larga popolarità presso pubblico e critici.

            Quel pregevole risultato assunse anche un giustificato carattere di felice premonizione per il futuro, considerata la giovane età di Verdi: poco più di ventotto anni.  Nabucco rappresentò certamente per lui il primo salto di qualità.

            Situazione che si realizzò, scrive Giulio Confalonieri, “perché nella profonda crisi di disperazione, tra le ferite dell’anima, tra il nero della solitudine ed i morsi dell’orgoglio spezzato, la forte tempra del contadino accumulò un’enorme carica  e l’innata indole di romantico covò il fuoco della vendetta (..) ch’è il proromper con intenti veementi, cercando di squassare se stessi e il destino”1).

            Secondo Gustavo Marchesi, Verdi più che ai contemporanei Bellini,Donizzetti , Pacini e Mercadante, “guardò al Rossini dei due Mosè e arrivò a collocare Nabucco su un gradino ben individuabile nella scala dei valori del tempo”2).

                 Verdi, infatti, oltre ad anticipare uno stile ricco di propositi anticipatori, tenne conto anche del clima socio-politico che si viveva in quegli anni in Italia, muovendosi con accortezza, facendo sì che la composizione muovesse a sentimenti graditi sia dai “conservatori, sia dai “patrioti” scossi dal loro spirito più inquieto.

            Scrive Marchesi: “Un popolo sconfitto e in catene ritrovava i propri diritti grazie all’intervento del Dio nazionale che sa convertire ad una fede comune, ad una giustizia pietosa anche il terribile vincitore. Il musicista aderì al soggetto con una veste sonora fatta su misura per conciliare gli opposti”. Opposti che in quel periodo storico, nell’Italia in quegli anni quaranta, erano radicati ciascuno nella propria fede.

            Nabucco, protagonista, venne reso musicalmente con la profondità della sua solitudine, sofferente perché maledetto dagli dei e dagli uomini.  Egli porta già il peso delle future creature verdiane, protagoniste solitarie di una tragedia, come la sua di sovrano spodestato, abbandonato nella solitudine. Riacquistato il potere, toccherà a lui combattere e spegnere gli impeti convulsi della schiava Abigaille che voleva capovolgere l’ordine gerarchico istituzionale. Personaggio che si identifica  nella “formosissima donna di catene carche ambe le braccia” del Leopardi, figura che “nei sogni patriottici degli italiani  del primo Ottocento era diventata simbolica e doveva presto rientrare nell’antica gloria”(op.cit.2).

            Ma, nonostante il pregio della figurazione musicale dei personaggi, la fama e l’apprezzamento universale del Nabucco è senza dubbio dovuta al Coro, particolarmente quando intona la sofferenza per la schiavitù e il pianto per la patria lontana.

            Ciò avviene, scrive Claudio Casini, perché  “il coro non rappresenta, come in Rossini, una generica immagine di popolo perseguitato, ma si riferisce ad una situazione attuale, un sentimento emotivamente presente nella coscienza attuale del pubblico, anche di quello non necessariamente coinvolto nell’irredentismo. E questo dipende dalla risonanza popolaresca della melodia verdiana, dall’abbandono di una scrittura colta, del genere rossiniano, per un riferimento a quella non colta nel trattamento stesso della massa corale”3).

            Emozione profonda, comunque, che si avvicinava allora a quella sentita e vissuta dalla società italiana, emozione, però, che anche da noi oggi è intensamente provata. In quel brano del Coro, infatti, la nostalgia evocata dalle note arriva ad una commozione, che è universalmente avvertita e che ha reso tanto famosa e ricercata l’opera in tutto il mondo.

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            A questo punto, descritti i pregi dell’opera e sottolineati i meriti e la capacità che Verdi mostrò in quella giovane età, pur dispiacendoci, non possiamo sottrarci alla notizia giuntaci secondo cui l’edizione milanese attuale del Nabucco non è affatto né esemplare, né rappresentativa delle intenzioni del compositore, come sopra descritte.

            Allo scopo ci rifacciamo ad un autorevole  e ben documentato testo dottamente scritto da Emanuele Dominioni, ritrovabile in Internet. In questa sede, ovviamente, possiamo copiarne solo alcune affermazioni, quelle più specifiche e concrete, in grado di far comprendere gli elementi e le motivazioni della critica.

1. MILANO, 27 ottobre 2917 – Nabucco come luogo della memoria. Da questo semplice assunto prende vita l’impostazione registica di Daniele Abbado che rilegge il capolavoro verdiano in una chiave contemporaneo/novecentesca. La vicenda biblica perde in questa visione i suoi connotati più naturalistici e storici.

2. Abbado, rileggendolo in chiave atemporale, lo priva di ogni riferimento preciso, traducendolo a elemento archetipico della civiltà ebraica;

3. Un’interessante lettura quest’ultima, che nella sua trasposizione teatrale pecca però di staticità scenica e incomprensibilità narrativa, figlie di una dimensione per lo più cervellotica e in ultima analisi del tutto fuori luogo in rapporto alla drammaturgia verdiana, soprattutto in questa fase.

4. A livello scenografico ci troviamo ora in un cimitero ora in un deserto, luoghi anche questi della memoria, i quali si muovono in spazi asettici, reinterpretando se stessi in un contesto poco credibile.

5. La sua lettura (di Nello Santi, regista, ndr) neanche a dirlo, offre i consueti tempi dilatati, e ciò non sarebbe di per sé discutibile se a una tale scelta stilistica non si accompagnassero vistosi errori in orchestra;

6. …attacchi che stentano ad arrivare, e giungono comunque mai precisi (anche a livello corale), e una generale pesantezza nella concertazione che non aiuta nessuno,

7. Dispiace che ci vada di mezzo Verdi stesso, di cui si sacrificano vitalità e verità drammatica; ( ….. ) avrebbe beneficiato di una lettura musicale ben più energica, o quantomeno precisa.

8. Di Martina Serafin lodiamo la qualità timbrica e una grande cura del fraseggio, che le hanno permesso di disegnare un’Abigaille ora guerriera ora donna tradita e figlia rinnegata, grazie a un’arte scenica davvero di primo livello.

Ha, però, potuto solo in parte ovviare a una linea di canto completamente fuori controllo, per quanto riguarda i passaggi al registro acuto;

9. Il resto del cast, in particolar modo, ha sofferto i tempi dilatati imposti dalla direzione. …. discreta è stata la prova di Mikhail Petrenko che, nonostante un’emissione non proprio a fuoco, è riuscito a imprimere nobiltà ai cantabili e carattere al suo Zaccaria.

10. Lo stesso dicasi per l’Ismaele di Stefano La Colla, che dà sfoggio di uno  strumento, invece, di ottima qualità

11. Annalisa Stroppa ….. ritorna qui con la consueta perizia nel fraseggio; nonostante qualche  difficoltà in zona acuta ….. si fa notare anche per una presenza scenica partecipe.

12. Buona la prova di Oreste Cosimo come Abdallo e Ewa Tracz come Anna; meno sul piano vocale quella di  Giovanni Furlanetto (Gran Sacerdote).

13. Buona la prova di Oreste Cosimo come Abdallo e Ewa Tracz come Anna; meno sul piano vocale quella di  Giovanni Furlanetto (Gran Sacerdote).

14. Il coro del Teatro alla Scala si conferma di prima qualità per quanto concerne qualità timbrica e compattezza sonora.  Dispiace vederlo e ascoltarlo in questa occasione lasciato al proprio destino da una concertazione poco attenta e  da una regia totalmente inerte.

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…….1)  Giulio Confalonieri: Storia della musica – Sansoni/Accademia. Firenze/Milano, 1968

…….2)  Gustavo Marchesi: Verdi . I grandi della musica – Fabbri Editori,1979

…….3)  Caudio Casini: Storia della musica: l’Ottocento – edt. 1978. A cura della Società Italiana di Musicologia

Emilio Respighi

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