Milano 22 novembre – E’ allarme povertà a Milano. Se i principali indicatori dicono che la crisi sembra alle spalle, non è ancora il momento di abbassare la guardia I gravi emarginati rappresentano, infatti, il 52,7% degli assistiti dei centri di ascolto Caritas. Il dato emerge dal XVI rapporto sulle povertà nella diocesi di Milano, elaborato dall’Osservatorio di Caritas Ambrosiana «Nel 2016 si è registrato un aumento significativo degli africani rimasti senza aiuto –ha spiegato Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana -. Ma in questi anni sono cresciuti anche gli italiani che fanno fatica a uscire dalla povertà Mentre, nel 2008, i132% si rivolgeva ai centri di ascolto per più di un anno, adesso una persona su due non riesce a staccarsi dalla povertà ed è costretta a chiedere aiuti, come integrazione al reddito e beni materiali, in particolare generi alimentari. Si tratta per la maggior parte di pensionati, ma sono sempre più numerosi i giovani». Gualzetti parla di una preoccupante «cronicizzazione della povertà» e anche di politiche che non riescono ad essere efficaci. Ecco perché ha detto: «Bisogna fare tutti squadra con alleanze fra Terzo settore, governo, enti locali e Regione». Un altro elemento che emerge dai dati dell’Osservatorio è che sono raddoppiate le richieste di aiuti economici ( 118%). In particolare, dall’inizio della crisi è progressivamente aumentato il numero dei disoccupati di lungo periodo, fino a rappresentare, ne12016, 1133,8%, un terzo del campione. Un problema che sembra più grave nella componente maschile, in cui la percentuale raggiunge 1144,2% e tra gli italiani, dove ad essere in questa situazione è il 41,5%. Mentre sono in calo gli assistiti che ricevono un servizio nell’ambito lavorativo. Questo perché, causa il perdurare della crisi, i centri non dispongono di nuove risorse. In poche parole chi cerca lavoro si rivolge altrove. Sul fronte degli immigrati si registra una diminuzione de133,7%di chi chiede aiuto, indice di una progressiva integrazione della popolazione, ma rappresentano ancora la maggioranza di chi bussa ai centri (62,4%). In Lombardia il gruppo etnico più numeroso, tra gli immigrati, è rappresentato dagli europei (24,5%). Il dato, al netto delle politiche migratorie attuate dal governo, rivela che le persone immigrate che si rivolgevano ai centri di ascolto hanno concluso il loro percorso di integrazione. Allo stesso tempo una quota di stranieri, provenienti da Marocco, Egitto, Gambia, Senegal, Nigeria e Costa D’Avorio, che ha chiesto asilo (42,8%), è priva di un alloggio e di un’occupazione stabile e, continuando a permanere sul territorio italiano, si rivolge ai centri di ascolto in cerca di beni di prima necessità. «Registriamo dopo un lungo periodo i primi segnali di un’inversione di tendenza, non sappiamo ancora quanto duraturi – ha commentato Gualzetti -. Ciò che è certo, invece, è che da un lato, le vittime della lunga crisi economica sono rimaste intrappolate nella povertà. Costoro hanno spesso il nostro stesso colore della pelle e parlano la nostra lingua: sono italiani, in età matura, con bassa scolarità. Nei centri di ascolto si spartiscono le risorse con gli ultimi venuti, gli immigrati africani, in fuga soprattutto dalla fame, che hanno approfittato del caos libico, per venire da noi. Mentre dobbiamo trovare una soluzione per i primi per sostenerli nella dignità, bisogna fare una seria riflessione, al di là di isterismi e strumentalizzazioni politiche, su cosa offrire ai secondi perché possano integrarsi e non finire nel sommerso, nell’illegalità o nelle mani del racket». Questo l’identikit di chi si rivolge ai punti di ascolto: immigrato, donna, fra i 25 e i 44 anni, coniugato, con scolarità bassa, problemi di occupazione e di reddito. Si stima che su 370 centri di ascolto in tutto il territorio diocesano gli utenti siano 80mila. Per il direttore del Consorzio Aaster i volontari che vi prestano l’opera, sono in una «solitudine resiliente» in cui emerge un «tessuto drammaticamente stressato dall’aumento dei bisogni». Questa la definizione di Aldo Bonomi, direttore del consorzio Aaster, che ha condotto un’indagine nei centri di ascolto Caritas ed evidenziato alcune criticità. «Abbiamo travato un tessuto dei centri di ascolto e della loro attività drammaticamente stressato dall’aumento dei bisogni della povertà». Fra le cause, nonostante venga condiviso l’operato, il mancato coinvolgimento complessivo della società e il fatto che, all’interno, non ci sia ricambio da un po’ di tempo. Insomma, si sente la mancanza dei giovani. Di chi rappresenta, anche da un punto di vista culturale, il nuovo secolo. E si avverte anche stanchezza. Questo problema «non è risolvibile semplicemente con un ragionamento autoreferenziale. Occorre guardare fuori e chiedersi il perché. Dal punto di vista dell’egemonia culturale viviamo nella società dell'”individualismo compiuto”, in cui è difficile organizzare una rete che ha come dimensione fondante una coscienza collettiva rispetto ai fenomeni dell’esclusione, della povertà e del disagio – ha riflettuto Bonomi -. Dalla “società verticale” siamo passati oggi alla “società circolare”, dove tutti sono coinvolti, che produce la società dello scarto, come hanno ripetuto Papa eil filosofo Bauman, e che sta aumentando». In questo passaggio si è sfaldato il concetto di comunità. Secondo il sociologo, è un po’ come se i volontari fossero considerati un »esercito dei buoni» che non fa contaminazioni sociali. Insomma, la comunità, come l’abbiamo conosciuta, non esiste più. Oggi la 6losofia moderna ci dice che la comunità è diventata «inoperosa». Una situazione che alimenta la «comunità del rancore» che esplode nei quartieri e viene amplificata dai mezzi di comunicazione. Per Bonomi i centri di ascolto devono lavorare sulla voglia di comunità. Queste le due polarità indicate dal sociologo: «Allargare la comunità di cura (Terzo settore, servizi sociali, welfare…) con le professioni, irrobustirla con le amministrazioni locali, facendo anche un duro lavoro di ascolto e accompagnamento della “comunità rancorosa”. Abbassare la “spocchia” e prendere per mano gli impauriti. In questo scenario, la Caritas deve diventare motore artificiale della ricostruzione della comunità».
Giovanna Sciacchitano (Avvenire)
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