Milano 23 Novembre – Per chi porta la barba esiste una sola cosa più fastidiosa di ch fa domande tipo «ma non ti prude?» o «ma non hai caldo d’estate?»: chi ti psicanalizza per dare una spiegazione edipica, narcisistica o sociologica al tuo vello facciale.Tra gli psicologi da rasoio spicca Dacia Maraini, che sul Corriere della Sera ha interpretato la diffusa moda della barba come «voglia di ristabilire l’autorità paterna», messa in discussione da chi «sta sottraendo agli uomini i segni visibili della dignità virile». I «peli precocemente ingrigiti» – che secondo la scrittrice «invecchiano e imbruttiscono» – diventano così un modo sbagliato di «riportare in vita un orgoglio maschile messo in pericolo».
Posto che si potrebbe chiudere la faccenda con una citazione di Verga («Ciascuno pensi alla sua barba prima che a quella degli altri»), vale la pena fare una riflessione. Perché dietro l’orrore della signora per mustacchi e favoriti si cela l’immortale veterofemminismo da operetta. Cosa vuol dire in sostanza la Maraini? Che di fatto la barba imperante non è che una manifestazione di frustrazione. Le donne stanno finalmente abbattendo il castello di prepotenza e dominio degli uomini da Weinstein in giù e costoro, detronizzati, reagiscono stizziti buttando via i Gillette. Per ogni donna in consiglio di amministrazione, un emulo di Bud Spencer in più; per ogni Asia Argento, un sosia di Marx.
Che barba, queste femministe d’antan. Che noia questa ricerca costante di indizi che confermino una loro Weltanschauung basata sul maschio inconsciamente bruto e potenzialmente prevaricatore. Dire che portiamo tutti la barba perché abbiamo nostalgia di quando si potevano tiranneggiare le donne è pura ideologia. Perché altrimenti diciamo pure che chi porta i diversamente virili risvoltini dei calzoni lo fa per combattere il riscaldamento globale, che scioglierà i ghiacci e ci farà salire l’acqua in casa. Delirio per delirio, vale tutto.
La verità è che la barba è una maschera, come scriveva Umberto Eco. È stata indice di saggezza nell’antichità, tanto da ispirare il proverbio romano «vedo il mantello e la barba, ma non il filosofo»; è sopravvissuta ai più grandi «barbicidi», come lo zar Pietro; è stata fascista prima e Sessantottina poi, hippie e hipster. Ha sconfitto i «Misopogoi», ovvero i nemici della barba, come da satira dell’imperatore Giuliano. E tutto questo per finire banalmente catalogata come «maschilista».
Non abbiamo combattuto contro le prediche e i pregiudizi di nonne, mamme e datori di lavoro per questo. Se invece della sua rubrica «Il sale sulla coda», la signora Maraini ne tenesse una intitolata «Il sale nella zucca», si sarebbe accorta che i maschi depilati sono ovunque e che certe barbe curate sono vezzose come una pochette, altro che virilità. E saprebbe che gli Unni – non proprio dei damerini – si scorticavano la faccia per non farsela crescere. Dunque, che sia un punto esclamativo sulla propria personalità, oppure l’addominale del Terzo millennio con cui concupire donzelle, la parola definitiva l’ha scritta Eugène Dulac, autore ottocentesco di Fisiologia e igiene della barba: «Qualsiasi attentato barbicida è un attentato alla libertà di cui la barba è simbolo. Maledetti siano i suoi persecutori. L’onnipotenza è dalla parte della barba».
Ps. Che la barba invecchi e imbruttisca è opinione comune e legittima. Neppure la permanente da barboncino aiuta, ma ognuno invecchi come gli pare.
Marco Zucchetti (Il Giornale)
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