Milano 29 Novembre – Non c’è da meravigliarsi se non tutti i neologismi registrati nei vocabolari d’oggi provengono dalle nuove tecnologie o dall’inglese dell’economia. Sarà un paradosso, ma ci sono neologismi antichi. Provate a sfogliare lo Zingarelli e vi accorgerete che negli ultimi vent’anni sono entrate nel lessico italiano parole che localmente conoscevamo benissimo da secoli e che la frequenza dell’uso ha imposto su scala nazionale. Come alcuni termini dialettali, napoletani («aùmma aùmma», «vaiàssa», «cazziàre»), siciliani («babbiàre») o lombardi.
I dialetti, che dovevano naufragare, si infiltrano nella lingua. Un esempio: «sciur» e «sciura», accolto trionfalmente tra le parole nazionali nel 2013, pur essendo un dialettalismo ben noto solo al Nord: del resto, prima delle mondine («Sciur padrùn da li beli braghi bianchi, fora li palanchi…»), di «vin de sciòr», vino da signori, scrisse il re dei poeti meneghini, Carlo Porta, nei cui versi non mancano le «sciorétte», la «sciorìne», lo «scioràzz» e gli «scioròni». E non mancano neanche il «cióll» e il « ciólla», che a essere letterali significa «pene» (singolare maschile) e invece metaforicamente allude al tanghero, esattamente come il «pirla». Ma mentre «pirla» si trova da qualche decennio nel vocabolario italiano, lo Zingarelli ha deciso solo nel 2008 di accogliere «ciùla» e «ciulare», parole dall’origine sconosciuta (forse da un supposto latino «colea», testicoli?) e però dall’accezione certa. Basti pensare al popolare uso di «ciulare» nel senso di rubare o ingannare o alla diffusa espressione «grande, grosso e ciula» (il celebre palo di Jannacci si lamentava del «laurà de ciula» a cui era costretto).
L’allusività dialettale è spesso più fine, ironica e icastica di quella italiana: per esempio, tra testa e testa vuota il passo è breve, tant’è che per i lombardi l’aggettivo «gnùcco» («pane gnùcco» è quello duro e difficile da masticare) deriva da «gnùcca» (nuca, zucca, da non confondere con la «gnocca», anch’essa non ignota al Porta) e si estende tranquillamente alle persone ottuse, ovvero dure di comprendonio. Ebbene, non sorprendetevi se il dialettale «gnùcco» da qualche anno si trova perfettamente a suo agio dentro il lessico italiano. Più prevedibile è ritrovare nello Zingarelli il «lumbàrd» di bossiana memoria, promosso sin dai primi anni 90 dalla discesa in campo nazionale del Senatùr e della Lega. Ma che il milanese non cessi di esercitare il suo prestigio sul parlante italiano di qualsiasi latitudine è dimostrato dalle due più recenti «new entries»: «schiscétta» e «pastrugnàre».
La pietanziera milanese da pausa-pranzo, necessariamente appiattita per questioni di spazio, proviene dal verbo «schiscià», schiacciare, e la dice lunga sulla crisi economica (meglio portarsi il pasto da casa…). Mentre il «pastrugnàre», da «pastrügn», pasticcio in senso proprio e figurato presente già nelle commedie del secentesco Carlo Maria Maggi, si impone all’attualità, scivolando nel delicato ambito erotico-sessuale e alludendo alla molestia più o meno giocosa con il senso di palpare o palpeggiare.
Per celebrare la memoria del vecchio Nicola Zingarelli, niente di meglio delle acquisizioni milanesi dentro il vocabolario che ancora oggi porta il suo nome e che uscì per la prima volta esattamente cent’anni fa proprio a Milano, presso gli editori Bietti e Reggiani, prima di diventare bolognese con la Zanichelli. E sempre a Milano, pur essendo pugliese (nacque a Cerignola nel 1860), il linguista morì nel 1935 dopo aver insegnato all’Accademia Scientifico Letteraria poi assorbita dall’università. Lo chiamavano «sciùr Professùr».
Paolo Di Stefano (Corriere)
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