Secondo quanto riferisce Erodoto, un emerodromo ateniese, cioè un messaggero greco addestrato a correre lunghe distanze in breve tempo, nel 490 a.C. percorse circa 240 km in due giorni per chiedere aiuto a Sparta in vista della battaglia contro i persiani. L’emerodromo si chiamava Fidippide. Il messaggio che Filippide riportò come risposta ad Atene era sia buono che cattivo: gli spartani accettavano di intervenire a loro favore contro i persiani, ma solo dopo che fossero terminati i giorni di festa in onore del dio Apollo, durante i quali era proibito combattere. In altre parole non avevano nessuna voglia di immischiarsi in una guerra, ma non volevano offendere i loro vicini ateniesi col rischio di inimicarseli troppo. Il poderoso esercito dei nemici persiani era ormai alle porte, e per gli ateniesi, infatti, la risposta degli spartani non aveva alcun senso. Bisognava mobilitarsi al più presto con o senza di loro. Nonostante ciò, solamente cinque dei dieci strateghi di guerra, fra cui Milziade, erano intenzionati ad attaccare il nemico senza attendere i soccorsi richiesti a Sparta. Tuttavia Callìmaco, che presiedeva il Consiglio di guerra, riuscì grazie al suo voto a fare prevalere il partito propenso ad attaccare. Milziade condusse dunque gli ateniesi contro il nemico prima che avanzasse verso Atene. Lo scontro avvenne nei pressi della città di Maratona ai primi di settembre del 490 a.C. e diede agli ateniesi una vittoria inaspettata. Le truppe persiane lamentarono gravissime perdite: circa 6˙400 contro appena 192 vittime ateniesi.

Così, a Filippide toccò nuovamente percorrere di corsa 40 km da Maratona ad Atene per dare la buona notizia. Fu quest’ultima impresa compiuta dall’emerodromo a entrare nella leggenda: dopo aver corso per tutti quei chilometri sotto il sole con l’armatura che lo rivestiva dalla testa ai piedi (sembra che un messaggero militare non poteva spogliarsi del suo armamento), arrivò ad Atene dove avrebbe pronunciato la celebre frase “abbiamo vinto” prima di stramazzare morto per lo sforzo sostenuto. Plutarco tuttavia non attribuisce quest’ultima l’impresa a Filippide come la prima. Dice che secondo lo storico Eraclide Pontico, il pover’uomo si chiamava Tersippo, mentre la maggior parte degli storici lo chiamava Eucle e le parole attribuitegli erano ‘salute a voi, stiamo bene’ e subito dopo morì. Luciano di Samosata riporta però lo stesso evento attestando che il corridore fosse proprio Filippide. Anche Plinio il Vecchio menziona l’impresa attribuendola a Filippide, nome greco che significa “amatore di cavalli”. Certo, risulta un po’ strana la sua morte dopo aver percorso 40 km quando la settimana prima ne aveva fatti di corsa ben 240. E non ci si può non domandare come mai un uomo con un tale nome preferisse farsela a piedi e schiattare per la stanchezza piuttosto che avvalersi di un cavallo. Inoltre erano i primi di settembre, e in quella zona le temperature erano ancora parecchio alte. Il motivo della morte di Filippide potrebbe essere attribuito dunque all’elevata temperatura che avrebbe provocato disidratazione e forse un arresto cardiaco; morte che, avvalendosi di un cavallo, si sarebbe potuta evitare.
Qualcuno obietterà che nell’antica Grecia gli emerodromi erano una figura importante proprio perché non conoscevano il cavallo. In realtà questo è falso, e non solo per via del significato del nome dello sfortunato emerodromo. Il commediografo greco Aristofane deformò il nome Filippide in Fidippide per alludere all’arte di “risparmiare i cavalli” correndo a piedi degli emerodromi. I greci inoltre utilizzavano bighe e carri trainati da cavalli nei giochi Olimpici fin dal loro esordio nel 776 a.C., cioè ben 286 anni prima della famosa corsa di Filippide. Anzi, sembra che sia stata proprio una corsa di carri a suggerire l’istituzione dei giochi Olimpici. Durante i giochi, le corse venivano disputate sia con carri a due ruote guidate da un auriga, sia con carri a quattro cavalli. Nell’ippodromo di Olimpia lungo 550 metri potevano gareggiare fino a sessanta carri contemporaneamente. E se le consuetudini romane relative alle corse dei cavalli erano per lo più di origine etrusca, le corse dei carri furono importate proprio dalla Magna Grecia.
Che i greci conoscessero i cavalli è inoltre attestato dai vari bassorilievi e dipinti che ci sono pervenuti. Anche il loro dio Apollo trainava un carro con cavalli; e Pegaso era un dio cavallo alato. Il cavallo non era invece molto utilizzato in battaglia. Nonostante la presenza dei cavalli, dunque, alcuni greci si addestravano costantemente per percorre enormi distanze in breve tempo: questa era in pratica la loro attività professionale. E anche se a noi sembra improbabile, esistono testimonianze circa la capacità di compiere tali imprese nel mondo greco di quell’epoca. Inoltre, sembra che in culture più antiche, come quelle dell’America precolombiana, esistesse il mestiere di messaggero sacro. E’ dunque possibile che anche nella cultura greca alla quale apparteneva Filippide, nonostante si disponesse di cavalli, alcuni preferissero correre a piedi per onorare qualche divinità con tali imprese? Comunque stiano le cose, è certo che correndo a piedi fino ad Atene per annunciare la vittoria degli ateniesi sui persiani, senza saperlo, Filippide affidava alla storia la sofferta specialità di consegnare la posta a piedi nell’antica Grecia. La corsa di 40 km da Maratona ad Atene è divenuta talmente famosa che su questo mito di Filippide è nata la gara di maratona, una corsa di resistenza, che è stata introdotta nelle Olimpiadi moderne nell’anno 1896, disputate proprio ad Atene.

E’ possibile che l’antico emerodromo che portò la notizia della vittoria da Maratona ad Atene non sia stato Filippide, essendo egli semplicemente stato confuso con quello che la settimana innanzi aveva in due giorni superato la distanza tra Atene e Sparta. Tuttavia, è proprio grazie a questo evento incerto che Filippide è passato alla storia insieme alla corsa di maratona. Va inoltre ricordato che mentre Filippide correva a piedi da una città all’altra per consegnare i messaggi, in altre parti del mondo funzionava un organizzato sistema postale che si avvaleva di messaggeri a cavallo. Il primo sistema postale di questo tipo di cui si ha notizia risale infatti al 4.000 a.C. e fu la Cina a istituirlo. Giungono testimonianze anche dalla Turchia intorno al 2.000 a.C., mentre l’Antico Egitto preferiva affidarsi ai trasporti fluviali. In Persia fu Ciro II che si preoccupò di introdurre e organizzare un vero e proprio servizio di posta pubblica con apposite scuderie di sosta: lungo tutto il percorso ve ne erano ben 111.
Nell’Impero Romano un efficiente sistema postale, detto ‘Cursus publicus’, ovvero ‘posta statale’, fu istituito da Ottaviano Augusto. In principio il servizio era svolto da corrieri a cavallo, mentre in seguito fu sostituito da carri trainati da una coppia di cavalli. Lungo il tragitto postale, formato da 200.000 km di strade, vi erano stazioni di cambio dei cavalli chiamate “statio posita” da cui derivò il nome “stazione di posta”. Il ruolo del cavallo era fondamentale, e veniva regolarmente sostituito nelle varie stazioni postali. Qui il cavallo poteva riposarsi e prepararsi per il viaggio successivo. Anche i carri richiedevano manutenzione. Proprio la regolarità dei cambi, sia dei cavalli sia dei corrieri, unita all’efficiente rete stradale, permetteva al servizio postale di funzionare in modo efficiente. Nel Medioevo il “cursus publicus” dei romani subì lo sfacelo. Le corporazioni dei mestieri, le imprese di commercio, i signori feudali e gli eserciti mantennero sistemi di corrispondenza privati; ma soltanto la Chiesa cattolica possedeva un’organizzazione paragonabile al servizio impostato dagli imperatori romani, utile per divulgare delibere dottrinali e decisioni dei sinodi episcopali. Ogni volta era apposto un messaggio di avvenuta ricezione.
Tratto dal libro “Cavalli e Ronzini” di Michela Pugliese
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