Marcello Dell’Utri e la (in)giustizia italiana

Attualità

Milano 9 Dicembre – L’ultima parola spetta sempre alle toghe. Anche per quanto riguarda gli aspetti sanitari.

Il rigetto da parte del Tribunale di sorveglianza di Roma dell’istanza  presenta da Marcello Dell’Utri, finalizzata al riconoscimento dell’incompatibilità del regime carcerario per motivi di salute, ha messo in evidenza un’altra “particolarità” del sistema giudiziario italiano.

Dell’Utri, in carcere ormai da oltre tre anni, aveva presentato ad aprile un’istanza di sospensione della pena per motivi di salute. L’ex senatore di Forza Italia, 76 anni compiuti, da tempo cardiopatico e con una grave forma di diabete, è affetto anche da un adenocarcinoma prostatico. Patologie che per i suoi medici lo rendono incompatibile con il regime detentivo.

Incompatibilità sottolineata anche dal medico del carcere che in due relazioni ha evidenziato come a Rebibbia non sia possibile praticargli cure e terapie necessarie.

In vista dell’udienza che doveva decidere sull’istanza, il sostituto procuratore generale della Capitale Pietro Giordano aveva nominato due consulenti affinché effettuassero una perizia sul suo effettivo stato di salute.

Anche questi medici erano giunti alle medesime conclusioni dei colleghi: le condizioni di Dell’Utri sono incompatibili con il carcere.

Il pg, però, nel parere aveva deciso di non tenere in alcun conto della relazione presentata dai suoi consulenti.  Dello stesso avviso, giovedì scorso, il Tribunale di sorveglianza.

Il motivo è semplice: il giudizio di compatibilità con il carcere spetta sempre al magistrato. Che quindi, in casi come questo, si “sostituisce” ai medici, diventando lui stesso medico.

Per i giudici, infatti, le patologie cardiache e oncologiche di cui Dell’Utri soffre, “sono sotto controllo farmacologico e non costituiscono aggravamento del suo stato di salute. La terapia può essere effettuata in costanza di detenzione sia in regime ambulatoriale che di ricovero ospedaliero”. Nel provvedimento il Tribunale descrive un “quadro patologico affrontabile in costanza di regime detentivo”. “La pena può assumere il suo carattere rieducativo non prestandosi a giudizi di contrarietà al senso di umanità”, ha poi aggiunto il collegio.

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