Emendamento alla manovra della Quartapelle autorizza la spesa folle per portare a Milano il barcone colato a picco nel 2015. Nel naufragio affogarono 700 immigrati
Milano 14 Dicembre – Non c’è pace per le 900 anime degli immigrati morti nel naufragio del peschereccio eritreo affondato il 18 aprile del 2015 a 70 miglia dalle coste libiche e divenuti, post mortem, inconsapevoli vessilli di una delle operazioni ideologiche più controverse del governo Renzi.
Per portare avanti un cinico spot in favore delle politiche dell’accoglienza, in questi due anni e mezzo si è speculato sulla memoria delle vittime e sui soldi dei contribuenti, con un costosissimo intervento di recupero, avvenuto nel luglio del 2016, di quello che è stato ribattezzato il «barcone della morte» . Alla maggioranza di governo non sono bastati i circa 20 milioni di euro spesi per portare il relitto alla base della Marina militare di Melilli, in provincia di Siracusa, e per mappare, senza apparenti risultati, il Dna dei morti nel naufragio. Per realizzare il «sogno» di portare il barcone a Milano, la deputata del Partito democratico Lia Quartapelle ha presentato un emendamento alla legge di bilancio che chiede di autorizzare il ministero della Difesa alla spesa di 500.000 euro per l’anno 2.018 per le operazioni di messa in sicurezza, trasporto e installazione presso l’università degli Studi di Milano» dello scafo di legno, colorato di rosso e blu, recuperato a 370 metri di profondità, L’emendamento e già passato alla commissione Difesa della Camera. Ora si attende il voto della commissione Bilancio, dove la discussione sulle richieste di modifica alla legge di stabilità parte oggi. È comunque molto probabile che il finanziamento da mezzo milione di euro avrà il via libera perché fortemente voluto dal Pd, che vuole avere a ogni costo un altro spunto per fare propaganda sui temi dell’immigrazione durante la campagna elettorale. Un auspicio che emerge dalle dichiarazioni rilasciate a Repubblica dalla Quartapelle: «Ci auguriamo che venga approvato perché sarebbe il compimento di un impegno preso dall’allora presidente del Consiglio Renzi dopo il naufragio e rilanciato dal sindaco Beppe Sala». Nei piani iniziali dell’ex presidente del Consiglio, il barcone sarebbe dovuto essere esposto in piazza Duomo a Milano e valorizzato tramite un’istallazione firmata dal regista messicano e premio Oscar Alejandro Iñárritu, ma l’idea finì su un binario morto. Poi, sempre nel pieno dell’emergenza migratoria alimentata dal caos libico, Renzi propose anche di esporlo a Bruxelles come monito imperituro per i freddi burocrati dell’Ue. Ipotesi accantonata subito, visto il mancato sostegno pervenuto da tutte le altre cancellerie europee, che si sono guardate bene dal fare apologia della mancata governance dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale. Così come non si è mai registrata alcuna adesione agli sforzi italiani da parte dei Paesi di provenienza delle vittime della tragedia.
A quanto a pare non si è fatto avanti nemmeno un parente di uno di quei 9oo poveri disgraziati. Le sconvolgenti operazioni per l’estrazione dalla stiva del groviglio di corpi rimasti per un anno sul fondo marino, descritte dal sindacalista dei vigili del fuoco, Costantino Saporito, e gli esami del Dna eseguiti da 13 diverse università italiane non sono serviti a nulla. Tutti i resti umani sono rimasti senza un nome, era assurdo infatti pensare che da Paesi molto poveri dell’Africa e dell’Asia sarebbero arrivati campioni genetici per fare un confronto.
Dunque, in Italia si vuole innalzare a monumento quello che, in realtà, è il più straziante simbolo del fallimento dell’operazione navale Mare nostrum che, malgrado gli sforzi della Marina, incentivò le partenze dalle coste libiche senza riuscire a ridurre il numero di migranti morti in mare.
La collocazione più probabile per il relitto ora è l’università statale di Milano, che si è offerta di ospitarlo a Città studi per farne un museo dei diritti. E c’è già chi vuole caricare di ideologia quello che dovrebbe essere un dignitoso ricordo di persone uccise, in primis, dallo sradicamento di massa imposto dalle dinamiche della globalizzazione.
Sull’edizione milanese di Repubblica Alessandra Kustermann, attivista per i diritti delle donne e ginecologa della Mangiagalli, dice che è ancora più importante portare a termine il progetto «di fronte ai rigurgiti di razzismo e agli ultimi episodi di intolleranza dei naziskin».
A questo punto la domanda più sensata, posta anche dal senatore Carlo Giovanardi, che si è sempre opposto al progetto, è: quante vite si sarebbero potute salvare con quei 20 milioni di euro?
Marco Guerra (La Verità)
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