Milano 19 Dicembre – Come è stato segnalato di recente proprio sul Corriere da Francesco Giavazzi e da Angelo Panebianco, in Italia lo statalismo furoreggia più che mai. È la conferma che a un gran numero di nostri concittadini il mercato non piace, mentre non a caso, come i due autori sottolineano, da molto tempo la percentuale dei votanti attirati da partiti e gruppi di cultura illiberale si aggira costantemente tra un terzo e la metà dell’elettorato.
Fin qui la diagnosi, che condivido. Si tratta di una diagnosi a cui però, mi sembra, non fa seguito l’analisi delle cause del male che segnala — e cioè perché mai gli italiani sono in così larga misura ostili al mercato — se non in modo che appare alquanto tautologico: sono ostili al mercato perché sono illiberali, e sono illiberali perché sono ostili al mercato. In realtà, invece, la perdurante ostilità di tanti italiani verso il mercato ha una spiegazione molto concreta(e fondata): ed è il modo come il mercato funziona qui da noi. Mi spiego: nel mercato, se si vuole che esso raccolga il consenso di tutti i partecipanti, non devono essere ammessi giochi sporchi, trucchi e soprattutto disparità di accesso alla fissazione delle sue regole; e quando si verifica uno di questi casi devono seguire immediatamente le sanzioni. Anche perciò, come è ampiamente risaputo, il mercato ha bisogno di regole precise — che evidentemente non possono essere stabilite che dallo Stato — le quali regole altrettanto evidentemente, torno a sottolinearlo, non devono essere congegnate per favorire alcuni a danno di altri.
Ora, nel nostro Paese, almeno in linea generale, regole stabilite dallo Stato — per il mercato come per qualsiasi altra cosa — non mancano davvero. Ce ne sono pure troppe. In questo senso esiste in Italia un reale e soffocante statalismo diciamo così istituzionale. Quello che invece manca è lo Stato. Manca cioè un’autorità che controlli effettivamente l’osservanza delle regole stesse e che in caso d’inosservanza emetta le relative sanzioni senza guardare in faccia a nessuno. Da noi un’autorità del genere ha sempre fatto difetto, ma oggi la sua assenza è addirittura drammatica. E mancando una tale autorità, mancando il controllo dello Stato, il gioco del mercato risulta inevitabilmente falsato, dal momento che i giocatori non sono tutti su un piede di parità, alcuni godendo di un surplus indebito di potere.
Esemplare in questo senso è il caso di quando in alcuni settori si è cercato di «creare il mercato» attuando la privatizzazione di un certo numero di asset pubblici. C’è qualcuno che oggi possa sostenere che quelle privatizzazioni abbiano messo sullo stesso piano, sempre per fare un esempio, da un lato il gruppo Benetton che acquistò Autostrade o il gruppo che acquistò la Telecom e dall’altro gli interessi dei venditori, cioè dei cittadini italiani proprietari di quei beni e insieme futuri clienti dei nuovi proprietari ? È un esempio cui ne potrebbero seguire moltissimi altri. La disparità di forza, di organizzazione e di influenza tra gli attori — cioè tra il pubblico da un lato, di per se praticamente privo di difese, e dall’altro chi offre beni e servizi, che invece è per solito munitissimo di mezzi — conduce regolarmente in Italia a una sostanziale non equità, a un gioco truccato. Vale, per fare altri esempi, nel caso del mercato dei servizi bancari o in quello dei prodotti energetici, ma la lista è lunghissima. Di fatto, a chi stabilisce le regole e ne controlla l’attuazione, cioè allo Stato o alle quasi sempre inette Autorità e Agenzie che lo coadiuvano o ne hanno preso il posto, la voce degli interessi proprietari arriva chiara e convincente, quella dei cittadini consumatori fiochissima.
E si può, mi domando, parlando di mercato e di pregiudizi contro il mercato, dimenticare quel mercato particolare — ma che rappresenta il mercato del quale soprattutto hanno esperienza quotidiana milioni di persone — che è il mercato del lavoro? Mi è capitato l’altra sera di vedere in televisione un servizio di Report su quel che succede in questo campo nella sede italiana di Amazon e in generale nel settore dei corrieri espressi. Qualunque fautore del mercato, quale io personalmente mi ritengo, non poteva che provare un moto di protesta ascoltando le molte testimonianze — puntualmente contraddette dalle obiezioni dei responsabili, è vero, che però apparivano sempre imbarazzate e speciose — circa le condizioni di desolante precarietà, di dipendenza assoluta dei lavoratori dalla volontà(ma spesso direi dal vero e proprio arbitrio) di una delle parti protagonista di quel mercato, cioè della proprietà. Non si tratta di casi isolati o particolari. Persone esperte del ramo riferiscono che di fatto il contenzioso legato al diritto del lavoro si è ridotto in questi ultimi anni di più della metà a causa di una legislazione che definisce, per l’appunto, un quadro di regole di gran lunga più favorevole a una parte che all’altra. Ma in che senso — chiedo e mi chiedo — si tratta di «regole di mercato»? Se viceversa il favore andasse in eguale grande misura all’altra parte, ai lavoratori, parleremmo ancora di «mercato»? E che mercato è se pur in queste condizioni il controllo dello Stato sulle regole stesse che egli ha fissato non è mai continuo e penetrante come dovrebbe ?
So bene che tutto ciò ha una formidabile, oggettiva, giustificazione in quel complesso di fenomeni che si chiama globalizzazione. Ma bisogna convenire che è alquanto difficile che una simile giustificazione possa valere più di tanto per chi si trova a farne le spese. E allora a chi altro costui dovrebbe rivolgersi per aiuto e protezione se non alla politica, cioè in ultima analisi allo Stato? E a chi dovrebbero rivolgersi i milioni e milioni di italiani che le statistiche accertano versare in condizioni di più o meno forte, spesso fortissimo disagio? Che poi vuol dire senza lavoro, con alloggio precario , magari con dei figli piccoli sottoalimentati? A chi altri Se non allo Stato. Non sarà che forse il diffuso riflesso statalista italiano costituisce spesso in realtà una protesta contro la latitanza dello Stato?
Lo statalismo, insomma, per la maggior parte di chi gli dà voce non è una fisima ideologica come invece è quasi sempre per le élite intellettuali. Risponde a una condizione reale di svantaggio ed è considerato il solo mezzo per porvi rimedio. Può darsi che non sia così, e dunque è giusto avversarlo. Ma solo dopo averne capito e vagliato attentamente le ragioni .
Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera)
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845