L’ho pagato, lo porto via. La Cassazione ha deciso: il doggy bag è un diritto.

Zampe di velluto

I ristoratori dovranno attrezzarsi per consentire ai clienti di portarsi via gli avanzi della tavola. Come fanno all’estero, anche tanti vip.

La quinta sezione penale della Suprema Corte ha riconosciuto piena dignità all’utilizzo della «borsa per cani», in cui raccogliere gli avanzi del cibo non consumato al ristorante, in pizzeria, al bar o alla tavola calda. Per poterlo assaporare altrove, in un altro momento o magari per destinarlo proprio ai migliori amici dell’uomo. Cambiano così volto, per giurisprudenza, consuetudini e costumi. E i luoghi comuni. In Italia, dove i morsi della fame post bellica fino agli anni Cinquanta rendevano normale riportarsi a casa da trattorie e osterie ogni ben di Dio rimasto a tavola per farne un’altra cena o un altro pranzo per l’intera famiglia, l’usanza era andata smarrendosi con il boom economico, sepolta dal marchio del «morto di fame» affibbiato a chi ardisse riproporla. C’è voluta Michelle Obama per rompere il taboo: nel 2009, a Roma col marito per i lavori del G8, la first lady statunitense prima di lasciare il ristorante «I Maccheroni» chiese una doggy bag per i resti della cena.

Qualche tempo dopo a Portofino l’attore Denzel Washington fu avvistato mentre risaliva sul suo yacht con il sacchetto per Fido di ritorno da una serata trascorsa sulla terraferma. Riscoperta la virtuosità del fenomeno, gli italiani (uno su cinque, oggi, secondo le statistiche di Coldiretti, porta a casa ciò che resta dopo aver pasteggiato in locali pubblici) si sono dati da fare per tradurlo in tendenza, con tanto di associazioni di volontariato impegnate a coinvolgere i ristoratori nella campagna «avanzi zero»: offrire agli avventori, oltre all’amaro, anche sacchetti in carta riciclabile, per facilitare raccolta e conservazione del cibo residuo. E l’esempio di Michael Phelps, che l’estate scorsa a Baltimora fu paparazzato all’uscita di un locale vip con sotto braccio un’avvenente signora ed in mano una vistosa doggy bag, è stato seguito in Trentino da un anziano signore: ospite di un albergo, al termine del pranzo ha domandato ad un cameriere una vaschetta per gli avanzi per poter soddisfare in un secondo momento l’appetito del suo cucciolo. Di fronte ad un diniego ritenuto ingiustificato, l’arzillo cliente, a dispetto dei suoi 76 anni, s’è lasciato andare a giudizi energici e – va da sé – poco lusinghieri sulla qualità della struttura alberghiera, beccandosi una querela per ingiuria. Condannato in primo grado, non s’è arreso. Ed ha presentato ricorso in Cassazione. Con successo: per gli ermellini il rifiuto opposto al settantaseienne dai titolari dell’hotel deve essere interpretato come una provocazione, e perciò esimente, costituendo la reazione al mancato consenso all’impiego della doggy bag «una replica all’imposizione di regole non irragionevolmente pretestuose ed ingiuste», dal momento che fa ormai parte «delle norme comunemente accettate nella civile convivenza» permettere ai clienti di ristoranti ed alberghi «di portar via dal tavolo il cibo avanzato per darlo ai propri cani». E se lo dice la Cassazione non è più una moda: è legge.

GIAMPAOLO IACOBINI

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