Milano 6 Gennaio – I timonieri della Canottieri Milano se li vedevano apparire davanti all’improvviso, immensi e silenziosi a scendere accompagnati dalla corrente del Naviglio Grande, carichi di sabbia: ed era un gioco di centimetri schivarli di una spanna senza interrompere il tonfo ritmico dei remi, e scorrere via nella nebbia, verso Corsico. Quelli, erano davvero barconi: gli ultimi eredi – e si parla degli inizi degli anni Settanta – della secolare storia di merci arrivate a fare grande Milano lungo i suoi canali, esempio fulgido e insuperato dell’ingegnosità lombarda. I barconi che in questi giorni il Comune smantella e spazza via dal panorama, nacquero come citazioni di quelle chiatte storiche, di cui peraltro riutilizzavano gli scheletri. C’era una certa grandeur filologica, nell’idea di portare a nuova vita i barconi del Naviglio, una citazione esplicita del passato della città calata nel suo presente. Non a caso a partorire l’idea fu Sergio Israel, il primo e più illuminato inventore della riconversione del Ticinese da quartiere popolare a fulcro della vita notturna cittadina (cui allora, fortunatamente, veniva risparmiato l’increscioso epiteto di movida). Durò poco, quella stagione di rinascita: e i tre barconi che oggi vengono smontati hanno ben poco a che fare con quell’epoca viva. Si tratta di orridi relitti, abusi edilizi sopravvissuti incredibilmente per anni, nella morta gora dei controricorsi, nonostante la loro palese illegalità. Eppure nell’opera di demolizione in corso in queste ore un piccolo filo di nostalgia si può cogliere, perché insieme ai suoi ultimi, tristi epigoni si chiude quell’era complessa che il primo barcone, quello piazzato da Israel davanti alle «Scimmie», simboleggiava. Le «Scimmie» sorsero sloggiando uno dei locali classici del Ticinese popolare, una trattoria da settemila lire a pasto, e per quei posti fu l’inizio della fine: l’esempio di Israel fu seguito a ruota, e uno dopo l’altro i ritrovi del vecchio borgo dei formagiatt cedettero sotto l’avanzare dei quattrini. Heineken al posto della croatina. Vecchie insegne fané vennero sostituite dai neon, e per la conquista degli spazi si aprirono scontri anche aspri: leggendario quello, con agguati e spedizioni punitive, tra gli aspiranti agli spazi del Nobel, il cinema di via Ascanio Sforza; a gestire l’irruzione erano spesso imprenditori legati a filo doppio ai gruppi dell’ultrasinistra, e uno dei «nuovi» locali, l’Osteria dell’Operetta, divenne persino la base dei terroristi dei Pac. Ma in quel clima teso e non sempre piacevole, scorrevano comunque fermenti culturali, voglie di contaminazioni. Alla Clinica di via Torricelli, si suonava il jazz, ma negli angoli sopravvivevano – pardon – le sputacchiere. Poi la conquista si fece assalto, il quartiere venne stravolto su entrambi i canali che ne sono gli assi portanti: in modo più patinato sul Naviglio Grande, con i suoi scorci da cartolina; brutalmente sul Naviglio Pavese. Di questo imbarbarimento, le tre chiatte rimosse erano il simbolo, ed il recupero della Darsena aveva come inevitabile corollario la loro scomparsa. Come quella dei tristi alberelli che i baristi avevano piantato sulle sponde, come quella delle speranze di un’epoca, come quella della nebbia.
Luca Fazzo (Il Giornale)
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