Milano 21 gennaio – Politica dannata, politica sporca, politica come marciume autoreferenziale ed escamotage poco onorevole per sbarcare il lunario. Poi, esce un film come L’ora più buia, ovvero quella che intercorre in Gran Bretagna tra il 13 maggio e il 4 giugno 1940. Le tre settimane che segnarono il collasso dell’Europa, la disfatta della Francia, il trionfo di Hitler, la minaccia concreta di un’invasione oltre la Manica. Ma soprattutto, è l’intervallo di tempo tra due discorsi di Winston Churchill che rappresentano due pietre miliari dell’arte oratoria, della scienza politica e della filosofia morale dell’Occidente.
Era appena stato nominato controvoglia, l’uomo che salvò il mondo libero, imposto a un Re riluttante e a un establishment palesemente avverso da un’evidenza tragicamente inaggirabile in quei giorni: Churchill aveva ragione. Per tutti gli anni Trenta, quando scontando consapevolmente la scomunica dell’apparato e quindi l’impossibilità di ricoprire incarichi di governo (la grande politica spesso è il diniego alla poltrona del momento), urlava nel deserto della coscienza inglese ed europea che Hitler era un tiranno di tipo mai visto e un potenziale genocida, non un novello Kaiser con cui impostare una strategia condivisa di appeasement. Per tutti gli anni Trenta, Sir Winston aveva ragione, e nel maggio del 1940, di fronte al disastro che avanza, la nazione lo chiama. Il 13 maggio è il giorno in cui presenta la sua piattaforma politica in Parlamento, semplice e complessissima: “Fare la guerra”. Precisamente: “Fare la guerra con tutta la nostra potenza e tutta la forza che Dio ci ha dato, e fare la guerra contro una mostruosa tirannia insuperata nell’oscuro e doloroso catalogo del crimine umano”. Quanto all’obiettivo finale, Churchill quel giorno osa l’inosabile, con l’esercito britannico in rotta verso Dunkerque: “Qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una parola. È la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza”. L’aula della Camera dei Comuni è muta, angosciata, messa di fronte alla propria responsabilità e alle proprie manchevolezze decennali. Partono gli intrighi, si moltiplicano i capannelli omicidi di deputati che vogliono già sbarazzarsi di questo primo ministro scriteriato, è già pronto il sostituto dialogante, ragionevole, con buone entrature in Germania, Lord Halifax. Negoziati di pace, questa è la parola d‘ordine di molti capocorrenti del Partito Conservatore, mentre i vertici militari non possono dirlo, ma ogni giorno dipingono a Churchill una situazione più disastrata. Avevano ragione, con un leader normale e normalmente ragionevole, la Gran Bretagna nella primavera del 1940 si sarebbe arresa, e nessuno le avrebbe potuto dire niente, nemmeno l’America ancora imprigionata dalle proprie turbe isolazioniste.
Ma Winston Churchill, uno scotch la mattina appena alzato, poi champagne fino a sera, quindi notti insonni sul brandy e sulle mappe belliche, non era un leader normale. Era già una vecchia volpe delle manovre d’aula e delle interminabili trame fuori di essa, conosceva quanto i suoi avversari Halifax e Chamberlain l’arte delle coltellate tra compagni di partito, ma in più aveva qualcosa difficile da definire, che coincide con l’essenza della politica, col motivo per cui, per quanto essa sia degradata e vilipesa dai supposti politici in carne e ossa, rimane quella “scienza architettonica” che Aristotele individuava come prioritaria per la convivenza umana. Chiamatela visione, scopo ultimo, stella valoriale. In ogni caso, è l’approdo finale che dà un senso a tutto l’itinerario accidentato, labirintico, spesso meschino, dei trucchetti e delle tattiche di giornata. Lungi dall’essere un sogno o peggio un ideale astratto, è qualcosa che tutti i grandi realisti hanno sempre riconosciuto da Machiavelli in poi (e Churchill era un realista formidabile, godetevi nel film la sparigliata con cui esce dall’angolo in cui i trattativisti, queste “pecore travestite da pecore”, pensavano di averlo messo): l’idea concreta per cui ne vale la pena. Per cui vale la pena dissimulare, mentire, soffrire. Il Principe è un capolavoro di tattica realista, ma sfocia nell’ultimo capitolo, quell’esortazione a prendere l’Italia e liberarla dai barbari, senza cui tutta la sozzura precedente perde inesorabilmente di senso, diventa rito sterile, l’ambiente putrido in cui si muovono i Chamberlain e i Lord Halifax. E allora Churchill sfoggia tutto il suo armamentario realista, spacca il fronte degli avversari, spettacolarizza e pubblicizza la domanda sull’opportunità del negoziato che gli altri volevano tenere rinchiusa nel bunker asfittico del Gabinetto di Guerra, convoca al tavolo della mattanza la vera parte in causa, il popolo britannico. La scena in cui Winston prende la metropolitana per la prima volta nella sua vita, e chiede a tutte le persone che incontra se vogliano arrendersi ai nazisti (“mai!”, è il grido incosciente ma alla fine molto più lucido degli accorti calcoli dell’élite) è la sublimazione definitiva della risposta alla domanda “perché la politica”. Per rappresentare loro, la madre con la bambina in braccio che urla “mai!” più di tutti, il muratore di mezz’età, il giovane studente. È per loro che abbiamo fatto la guerra a Hitler, scriverà più volte Churchill nella sua Storia della Seconda Guerra Mondiale, per “l’uomo comune”, per la sua possibilità di scegliere, autodeterminarsi, vivere e morire libero.
“Noi difenderemo la nostra isola, qualunque sia il prezzo da pagare”, dirà allora Churchill nel discorso del 4 giugno, dopo l’evacuazione di Dunkerque che per tutti è un miracolo, per lui un punto di partenza. È il discorso che gli Halifax non si aspettavano, e soprattutto che non si aspettava Hitler, il discorso che afferma il punto di non ritorno che il popolo britannico sceglie consapevolmente di oltrepassare con le parole del proprio leader: “Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai!”. L’istanza viscerale della gente del Regno Unito, quella che ha salvato l’Europa e il mondo dall’orrore senza fine, il grido istintuale “mai la svastica su Londra!”, prende corpo nelle parole e nelle azioni di quell’uomo sempre col sigaro acceso e il bicchiere di whisky nell’altra mano, il politico in mezzo al nugolo di politicanti. Che fa il suo mestiere fino in fondo, elevando l’istinto a visione, chiudendo con l’appello finale all’unico attore che poteva dare una prospettiva a quella “resistenza eroica” a oltranza, gli Stati Uniti d’America: “Non potremo mai arrenderci, e anche se, cosa che per il momento non credo possibile, quest’isola o gran parte di essa sarà soggiogata e alla fame, allora il nostro Impero d’oltremare, armato e difeso dalla flotta britannica, continuerà la lotta, finché, quando Dio lo vorrà, il Nuovo Mondo, con tutta la sua forza e potenza, farà un passo in avanti per la salvezza e la liberazione del Vecchio”. Io devo tenere duro, devo tenere la fiammella accesa, devo tenere aperta la finestra della libertà. Perché l’America dovrà entrare in guerra, lo so nonostante tutto, nonostante le telefonate frustranti con Roosevelt che deve lasciarci gli aerei che abbiamo comprato al confine col Canada per non violare la neutralità, nonostante l’Atlantico in mezzo che non è mai stato così ampio, nonostante la comprensibile perplessità dell’opinione pubblica a farsi macellare per i guai dell’Europa. E lo so perché io, Winston Churchill, sono un politico. Di quelli veri, come ce ne sono quattro o cinque in un secolo, e di cui avremo sempre disperatamente bisogno.
Giovanni Sallusti (L’Intraprendente)
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