Il cane che non ti aspetti. Il nostro amico Bill.

Zampe di velluto

Non avevamo avuto altro che un pesciolino. Poi ci siamo persi per lui, trovato in giardino.

Nella mia famiglia non era mai entrato un animale domestico (se non un pesce rosso) fino a quel 13 gennaio 1997 quando nel mio giardino comparve quasi miracolosamente lui, Bill. Erano circa le 13 quando, tornato dal lavoro per il pranzo, vidi qualcosa di nero nell’orto. Chiamai mia moglie Margherita per capire che intenzione aveva riguardo a quel piccolo essere che sembrava essere un merlo. Lei tutta felice lo portò in casa cercando di dargli calore e latte. «Che facciamo?» chiesi. «Se è sano e non è un Dobermann lo teniamo». Risultato: meticcio di Dobermann di 3 mesi, un po ‘ rachitico e di taglia media. Dopo le dovute iniezioni, ci fu spiegato come nutrirlo e curarlo. Non avendo mai avuto cani per casa, aspettammo l’arrivo dei tre figli per il responso. Inutile dire che erano tutti felicissimi di tenere quel piccolo cane, con le orecchie basse a mo’ di coppola, pelo liscio e lucido e molto affettuoso. Dopo varie discussioni, decidemmo di tenerlo in casa. Questo perché lui si faceva amico di tutti e fuori c’era freddo. Dopo 4 mesi, le orecchie erano dritte, la “livrea” nera e lucidissima e una dentatura eccezionale, la quale era pronto a mettere in mostra contro scocciatori ed estranei. Alto circa 50 cm, petto molto sviluppato, gambe ben proporzionate, insomma, un vero corridore, con la passione per i sassi. Se arrivava qualche nostro amico, dopo aver controllato e annusato se era di suo gradimento, gli portava un sasso da lanciare e rincorrere.

Tutti i giorni, dopo pranzo, ancora prima di alzarmi da tavola, mi guardava e muoveva la testa come per chiedermi:«Andiamo?», Facevamo 50/60 km alla settimana nei campi, sempre libero di rincorrere qualsiasi cosa. Per capire i segnali di Bill, in famiglia abbiamo impiegato più tempo di qu ello che ha impiegato lui per capire noi. Non bisognava litigare ad alta voce perché si metteva in mezzo a ringhiare e mostrare i denti. Non dovevi neanche fare finta di minacciare con armi o bastoni i membri della nostra famiglia, perché diventava pericoloso. Era anche “razzista”: se sulla strada esterna che affiancava il nostro giardino passava una persona di colore, abbaiava e correva avanti e indietro finché questa non si era allontanata. Guai a lei se accennava ad entrare nel quartiere, perché lui era pronto a saltare la siepe di un metro e mezzo e affrontarlo. Non tollerava nemmeno i bambini piccoli, soprattutto se piangevano. E quando era nella sua cuccia, guai a toccarlo. Prima di andare a letto dovevo portarlo fuori nei prati perché il suo giardino di 500 mq non gli bastava. Di notte sentivi i suoi passi quando si avvicinava per controllare le nostre camere. Bill ci voleva davvero bene. Anche quando, quelle due volte all’anno, nel vicinato c’era qualche femmina in calore, lui saltava la siepe e scappava via, ma al ritorno, come castigo, mi toglievo l’orologio da polso e lui scappava sotto il letto, perché sapeva che volevamo portarlo nella vasca per fargli il bagno.

Odiava l’acqua! Credo che ci abbia dato tutto quello che poteva darci, ci accompagnava dappertutto, sui monti, alla raccolta dei funghi, delle castagne, nei boschi, anche in mezzo alla neve. Sempre scattante alla rincorsa di fagiani, lepri, caprioli, scoiattoli, ricci. E quelle rare volte che dovevamo andare via senza di lui, era lì pronto ad accoglierci al nostro ritorno, gioioso come un bambino! La sera poi, davanti alla tv, sul divano si accovacciava sulle gambe di mia moglie, e lì guai a toccarlo… e guai a toccare anche lei! Potrei scrivere tante altre cose che in 13 anni ci ha donato. Posso dire che con lui ho passato quegli anni come fosse un caro Amico. Poi, un giorno di giugno del 2010, prima di partire per le vacanze l’abbiamo portato dal veterinario per la solita visita, ma purtroppo ricevemmo un esito infausto: cancro all’ano. Gli restavano sei mesi. Decidemmo di curarlo senza intervento. Viveva a fatica, e vederlo così ci faceva star male. Decidemmo di fargli l’eutanasia. La mattina decisiva, quando lo portammo in ambulatorio, scese dalla macchina, senza dire niente e si incamminò con grande fatica. Abbaiò tre volte. Era l’ultimo saluto.
RENZO CORSO (Libero)

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