Il duca di Wellington, Arthur Wellesley, di origini irlandesi, nacque lo stesso anno di Napoleone; e non fu l’unico particolare che permise alla storia di metterlo in relazione con l’imperatore francese: fu lui a segnare il destino di Napoleone a Waterloo il 18 giugno 1815. Prima dei vent’anni Arthur non mostrò segni di distinzione: era un accanito giocatore d’azzardo, gran bevitore e donnaiolo. Dopo aver ricevuto un addestramento militare in Inghilterra, frequentò l’Accademia militare di Equitazione di Angers, in Francia. S’innamorò di Catherine Pakenham, figlia di un nobile irlandese, e ne chiese la mano. La famiglia di lei, però, rigettò la proposta ritenendolo un giovane senza prospettive. Arthur partì dunque volontario per le campagne militari nei Paesi Bassi e nelle Indie Orientali, ottenendo spettacolari successi e salendo in un decennio sino al rango di maggior generale. Vinse tutte le battaglie e ricavò una fortuna. Al suo ritorno in Irlanda nel 1804, senza aver più rivisto Catherine Pakenham, si affrettò a rinnovare la proposta di matrimonio. Questa volta la famiglia di lei accettò ma, purtroppo per Arthur, che non vedeva la sua innamorata da quasi dieci anni, si accorse troppo tardi che ormai la bellezza di Catherine era in parte svanita. Si pentì della decisione presa ma, da perfetto gentiluomo, fece onore alla sua promessa di matrimonio.
Quando il 26 febbraio 1815, eludendo la sorveglianza della flotta britannica, Napoleone fuggì dall’Elba dov’era tenuto prigioniero e si presentò alla Francia, fu nuovamente acclamato dalla popolazione. Non tardò a riprendere il controllo del paese. Arthur, duca di Wellington, fu chiamato ad assumere il comando dell’Armata dei Paesi Bassi, formata da contingenti britannici, olandesi e tedeschi, durante la campagna di Waterloo. Il destriero da lui cavalcato si chiamava Copenhagen. Fu proprio in quell’occasione che Copenaghen si fece un nome degno di un eroe. Che cosa rese tanto popolare uno stallone sauro bruciato piccolino e muscoloso? Di certo, non soltanto il fatto di essere il cavallo del comandante, benché anche in quell’occasione il duca vinse la battaglia. Copenhagen, tra i tre e i quattro anni, aveva vinto un paio di volte prima di essere ritirato dalle corse per essere messo su una nave e spedito a Lisbona dove l’esercito inglese era impegnato nella Guerra d’Indipendenza Spagnola: era stato riciclato come cavallo da carica. Qui fu acquistato dal duca di Wellington e con lui affrontò la Campagna di Spagna. Il duca disse di lui: “Può darsi che possano esserci stati cavalli più veloci, e certamente ce ne sono tanti più belli di lui: ma non ne ho mai visto nessuno che lo possa eguagliare per fondo e resistenza”. Copenaghen era un tipico Purosangue Inglese alto poco più di 152 cm, che conservava forti caratteristiche Arabe. Era un cavallo comunicatore, che si faceva benvolere da tutti salutando con potenti nitriti. Solo minacciava calci a chiunque gli si avvicinava troppo.
Il giorno prima della battaglia il duca cavalcò Copenhagen dalle 10 del mattino alle 8 di sera senza pausa; e il 18 giugno per 15 ore, durante le quali assunse il completo controllo della battaglia. Le sorti di Waterloo si decisero sul filo del rasoio: il campo di battaglia non era dei più adatti per via della pioggia che la notte precedente era caduta copiosa; Blucher, che comandava l’esercito prussiano, tentennava e rallentava le operazioni che avrebbero dovuto dare man forte agli alleati inglesi; Napoleone, da parte sua, riusciva a utilizzare in modo strategicamente magistrale i suoi soldati, ma non bastò e perse la battaglia. Finiti i combattimenti, quando Wellington smontò di sella fiero per la storica vittoria, diede una pacca sulla groppa del suo cavallo, che per tutta risposta, gli sferrò una bella coppiola in direzione della testa: per fortuna il duca riuscì ad evitarla per pochi centimetri. Non si sa se a irritare il cavallo sia stata la stanchezza, o se in tutto quel frastuono non abbia riconosciuto il suo padrone: lui comprese e non nutrì risentimento per tale reazione. Copenaghen era abituato a scalciare contro tutti, ma non contro di lui. E del resto, dopo la vittoria appena ottenuta contro Napoleone, poteva mai rimproverare il suo più grande alleato?
Anche se, a quanto pare, ad aiutare il duca di Wellington non fu solo Copenaghen, ma anche il fatto che Napoleone soffriva di emorroidi. I generali dell’epoca, per avere un minimo di visibilità e dirigere le operazioni, si piazzavano a cavallo su una collina alle spalle dello schieramento e da lì muovevano le formazioni. Ma per colpa delle emorroidi, Napoleone stava in sella a fatica, mentre dall’altra parte Wellington cavalcava instancabile nonostante tutte le ore già passate in groppa a Copenaghen. A un certo punto Napoleone non ne poté più di stare in sella e scese dalla groppa del suo cavallo. Inoltre, emorroidi a parte, anche se il genio strategico di Napoleone era sempre quello di un tempo, e lo dimostra il piano che lo ha portato a Waterloo, sul campo stava perdendo colpi. Senza contare che il capo di Stato maggiore non era più Berthier, l’uomo che aveva il compito di trasformare le parole del genio in piani operativi: era morto il primo giugno cadendo dalla finestra di casa sua, forse un incidente, forse suicidio, forse ucciso dai nemici di Napoleone per impedirgli di combattere al suo fianco. Insomma, tutto si svolse a favore del duca di Wellington. Ed è probabile che il cavallo di Napoleone sia stato trovato abbandonato per via delle emorroidi del suo padrone.
Dopo Waterloo, per Copenhagen ci fu ancora la campagna di Francia, poi il duca lo montò solo in parate militari ed eventi ufficiali mettendolo praticamente in pensione anticipata presso la sua tenuta di Stratfield Saye. Qui il cavallo visse fino al febbraio del 1836: aveva ormai 28 anni, ma amava ancora essere al centro dell’attenzione e adorava le mele. Si era fatto una solida fama, ricevendo durante la sua vita il tipo di adulazione che oggi viene riservata ai divi. Fu seppellito con tutti gli onori militari a Stratfield Saye, la residenza del duca nella campagna dello Hampshire. La sua lapide reca incisa una frase tratta dal poema commemorativo “Epitaph”, scritto per lui da R.E.Egerton Warburton: “Il più umile strumento di Dio, per quanto infima argilla, dovrebbe condividere la gloria di quel giorno glorioso”.
In quanto a Wellington, per le sue imprese divenne oggetto di venerazione da parte del popolo inglese e si diede alla politica nonostante la scarsa considerazione che esprimeva nei riguardi dei ministri e dei deputati. Fu per due volte Primo ministro del Regno Unito ed è passato alla storia anche con il soprannome di “Duca di Ferro”, non si sa bene se per la sua inflessibilità e tenacia o per il suo straordinario vigore fisico. O forse, semplicemente per aver ordinato di porre serramenti metallici, durante alcuni tumulti nel 1830, per impedire ai manifestanti di rompere le finestre della sua Apsley House. Morì il 14 settembre 1852. Era riuscito a vivere tanto da vedere Napoleone III diventare il secondo imperatore dei Francesi. Un milione e mezzo di londinesi si ammassò lungo il percorso del carro funebre, da Buckingham Palace fino alla cattedrale di Saint Paul. Preceduto dalle truppe, il feretro del duca era seguito dal suo cavallo, quello che aveva ormai rimpiazzato Copenaghen.
Nel 1846 il Wellington Arch venne scelto per collocarvi una statua del duca di Wellington in sella al proprio cavallo. Fu così che venne forgiata la Wellington Statue: 40 tonnellate di bronzo in 8,53 metri di altezza frutto della maestria di Matthew Cotes Wyatt, anche se nel portamento la statua non è particolarmente suggestiva ed è poco valorizzata. Sicuramente sfigura per magnificenza rispetto ai tanti altri memoriali di eroi. Tra il 1882 e il 1883 l’arco fu smontato e ricostruito presso Hyde Park Corner, nella sua posizione attuale, mentre la statua di Wellington fu riposizionata ad Aldershot, dove si erge tuttora. La storia ufficiale ha dunque ampiamente riconosciuto sia il duca di Wellington che il suo cavallo. Ciò che la storia ufficiale non dice, è che se quel giorno Napoleone non avesse avuto un attacco di emorroidi, probabilmente i libri racconterebbero un’altra storia.
Tratto dal libro “Cavalli e Ronzini” di Michela Pugliese
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