Milano 12 Marzo – Come si dice, il mondo è vario. Quello della politica (italiana) più vario di tutti. Si da il caso, tra l’altro, che un Parlamento l’attuale, abbia licenziato un legge elettorale ex novo, nel senso che è diversa dalla precedente e dalle altre. E si capisce. Ciò che si stenta a capire, com’è come non è, come chioserebbe un sublime Alessandro Manzoni, è il senso squisitamente politico di una legge che, a detta di tutti o quasi, non è stato capace di realizzare una maggioranza, degna di questo nome, in grado di governare. Verrebbe voglia di rinfacciare a chi l’ha voluta con un’altra massima: chi è causa del suo mal pianga se stesso.
Il fatto è che dobbiamo piangere un po’ tutti, almeno noi democratici, perché non esiste in democrazia la mancanza di un governo nel senso che, se non si trova una maggioranza in grado di governare la cosa pubblica, ovvero un Paese, cioè il nostro, occorre ritornare alle urne. E dopo? Con la stessa legge?
Fra intellettuali organici immediatamente saliti sul carro del vincitore, comme d’habitude, e l’estremismo assistenzialista dei vincitori grillini, la faccenda di quel tipo di maggioranza – una comunque c’è ed è uscita dalle urne e ruota intorno ai nomi di Salvini e Berlusconi – si complica e complica il lavoro dell’unico, oggi, regista-attore istituzionale che sta al Quirinale. Sul quale da qualche parte si sono avvertite delle, chiamiamole così, preoccupazioni politiche, a parte s’intende i sorrisi larghi un km del Di Maio che, pure, è in attesa delle decisioni di Mattarella e non nasconde, fra una risata e l’altra, una certa speranziella di essere proprio lui il prescelto. Il che, ovviamente, non è gradito agli altri, anche a Salvini e, ancora di più a Berlusconi, per non dire di Renzi e dei renziani con un Pd a rischio, per loro, di derenzizzazione.
Siccome questa si annuncia come una crisi non di facile soluzione e dunque lunga, saremmo quasi dell’opinione di non sollevare altre preoccupazioni se non fosse che, almeno in prima battuta, la voglia di affidare a Di Maio and company prevalesse persino sulla loro reale, confermata dal voto, mancanza di una maggioranza, neppure minima. E allora, in tal caso, come la mettiamo con l’autentica voglia grillina di un estremismo assistenzialista condita da giustizialismo e populismo devastanti per di più innestati sulla assenza sia di un programma sia di una politica estera? Donde, per l’appunto le paure che, come sempre, si accompagnano ai sospetti. E vabbè.
Vale a tal proposito la pena di ritornare al capolavoro manzoniano laddove a un Renzo arrabbiato e sospettoso, replica un Don Abbondio, spaventato dai bravi di Don Rodrigo con quel minaccioso “questo matrimonio non s’ha da fare, né ora né mai!”. Don Abbondio ricapitola qualche antica nozione ecclesiastica a proposito di sposalizi e le spara a un sempre più teso Renzo, preso in contropiede da regole e citazioni in lingua latina che, ieri come oggi, ha una sua autorevolezza in sé. Soprattutto a proposito di negazioni, anticipatrici di quel non possumus che fa sempre effetto su chi non ne sa nulla di latinorum. E vengono così enunciati dal Don i cosiddetti impedimenti dirimenti. “Error, conditio, votum, cognitio, crimen, cultusdisparitas, vis, ordo, ligamen, honestas…” Al che il povero Renzo, preso in contropiede dall’arma infallibile del latino, se ne va imprecando.
La citazione riguarda un Don Abbondio, emblema di ogni cedimento ai potenti i quali, conoscendolo bene, sanno che davvero quel matrimonio con Lucia non sarà celebrato, se non alla fine: del romanzo. Ma, capovolgendo in un certo senso la scena e aggiornandola, sia pure con qualche forzatura tanto per capirci, esistono anche oggi analoghi impedimenti dirimenti rispetto a un matrimonio ben più importante di quello fra Renzo e Lucia cioè fra l’Italia e un movimento fra i cui elettori, tantissimi nel meridione, è iniziata la corsa per chiedere a Di Maio, né più né meno che lo stipendio promesso e che, per molte famiglie, dovrebbe aggirarsi sui 1500-1770 euro mensili, con una spesa per lo Stato calcolata intorno ai trenta-quaranta miliardi (di euro), che non sono bruscolini.
Da Don Abbondio del 1600 al leggendario CettoLaqualunque dei nostri giorni, col suo bel faccione sul manifesto e con tanto di proclama: basta con la disoccupazione! Basta col Carovita! Per ora. E ci scusi Don Lisander di averla un po’ strumentalizzato.
Paolo Pillitteri (L’Opinione)
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